sabato 5 settembre 2009

11. Gli Ebrei

Secondo la Bibbia, gli ebrei sono originari di Ur, l’ultima città importante di Sumer. Essa è caduta per mano degli elamiti (2004), ma si rialza, per nulla rassegnata a morire. Adesso diverse potenze lottano per l’egemonia in Mesopotamia. Si tratta di alcune popolazioni tribali (elamiti e amorrei) e alcune città (Isin, Larsa, Eshunna, Assur, Mari, Babilonia). Per Ur inizia una lenta agonia, che si protrae per oltre due secoli e durante la quale essa passa da una dominazione all’altra e da una guerra all’altra.
Per gli uriti la vita non è facile e chi può si allontana in cerca di fortuna. I più favoriti in tal senso sono i pastori, i quali sono abituati a portare le greggi al pascolo e non a coltivare la terra. Uno di questi è Terach, padre di Abramo e capo di un numeroso clan (200-400 membri), alla guida del quale si muove alla ricerca di un luogo migliore. Non si sa se è diretto verso la terra di Canaan, ma è probabile che non sia questa la sua meta, perché percorre una via che lo porta piuttosto a nord della Mesopotamia, verso la città di Carran, dove decide di fermarsi. Alla morte di Terach il comando passa nelle mani di Abramo, il quale non è soddisfatto della situazione che ha trovato a Carrai.
Tutta la Mesopotamia è una polveriera, tutte le città si combattono fra loro: meglio cercare una nuova sede. Questa volta Abramo si dirige vero la terra di Canaan, che è solo una regione di transito e non sede di grandi città. Il viaggio è difficile e Abramo sente il bisogno di rassicurare la sua gente affermando che il loro dio gli ha promesso che tutto andrà nel migliore dei modi (Gn 12,2-3). Questa Promessa rimarrà impressa nella memoria di quella gente. Abramo inaugura il Periodo dei Patriarchi (1800-1180).
Purtroppo, nemmeno Canaan si rivela un luogo sicuro e le popolazioni locali non mostrano alcuna intenzione di far posto ai nuovi venuti. Così, Abramo e i suoi uomini devono accomodarsi nell’area semidesertica del Negev, ricettacolo di gente che vuole nascondersi, banditi, criminali, fuoriusciti, noti col nome di habiru. La vita dei pastori nomadi è dura e in controtendenza, in un periodo in cui si preferisce la residenza stanziale, ma molti habiru finiscono per idealizzare quella vita. Per gli abitanti del Negev si apre un lungo di periodo di silenzio (1750-1250), durante il quale essi sembrano scomparire dalla storia. Sappiamo però che un gruppo di habiru approfittano del passaggio degli Hyksos (1730) per mettersi al loro seguito alla volta dell’Egitto, che viene conquistato (1730-1560). È un periodo felice per gli habiru in terra egiziana, che però non dimenticano le loro origini e i loro fratelli che sono rimasti nel Negev e presso l’oasi di Cades. A partire dal 1460, quando Canaan viene sottomessa dall’Egitto, fra gli habiru d’Egitto e quelli del Negev c’è possibilità di libero scambio e forse molti cominciano a lasciare il deserto.
Nel 1350 il faraone Akhenaton si fa protagonista di un’ambiziosa riforma religiosa, che è centrata sull’unico dio Athon. Alla morte del suo fondatore, il monoteismo di Akhenaton viene dichiarato fuorilegge, ma non sono rari coloro che ancora continuano a credervi, e fra questi il principe Thutmose (Mosè) e molti habiru. Scoperto, Mosè guida gli habiru fuori dall’Egitto (1250) e si rifugia nel Sinai, dove può congiungersi con i compagni del Negev. Il Sinai è una regione semidesertica e la vita è tanto dura da scatenare le proteste degli habiru. Mosè fa fatica a controllare la situazione, ma, un giorno incontra Jahve, un dio della montagna, il quale gli rinnova la Promessa che già aveva fatto ad Abramo: se osserverete i miei comandamenti, supererete ogni difficoltà e potrete vivere felici.
Dopo il passaggio dei popoli del mare e la fondazione delle città-stato filistee, la terra di Canaan appare frammentata in una serie di principati, mentre gli ebrei sono suddivisi in tribù, accomunate dal culto di Jahve, ma separate geograficamente dalla presenza di enclaves cananee. Nell’XI secolo i filistei soggiogano gli ebrei, che reagiscono unendosi sotto il comando del re Saul e maturando una coscienza nazionale: da questo momento, il loro vecchio appellativo di habiru diventa il nome di un popolo, gli Ebrei. Gli ebrei conquistano l’indipendenza col re Davide, il quale fonda un impero effimero, che si frantumerà in tre principali regni (Giuda, Israele e Damasco), equivalenti per forza. Essi convivono fra guerre e tentativi di stringere relazioni amichevoli ed alleanze, fino all’arrivo degli assiri, le cui guerre di espansione iniziano intorno al 930.
Gli Ebrei di Giuda traggono la loro unità, la loro forza e la loro volontà di lottare ad una particolare concezione religiosa, che finirà per contraddistinguerli: il loro dio, Jahve, è il più potente fra tutti gli dèi e, in quanto tale, è garanzia di vittoria. Ma ad una condizione: che gli ebrei lo riconoscano come unico loro dio ed espellano dalle loro terre le divinità di tutti gli altri popoli.
Intanto i filistei vengono sottomessi dagli assiri (734), che sono in fase di espansione. Nel tentativo di arrestare l’imperialismo assiro, Damasco e Israele si alleano e cercano di coinvolgere anche il re di Giuda, Acaz, ma, di fronte al suo rifiuto, decidono di muovergli contro e costringerlo con la forza. A questo punto, Acaz chiama in aiuto gli assiri che, guidati da Tiglatpileser, sia pur con fatica, sottomettono Israele (721) e ne deportano la popolazione. Giuda è soddisfatto e ringrazia il suo dio, ma ha poco da gioire. Anch’esso, infatti, entra nell’orbita assira ed è costretto a pagare un tributo talmente gravoso da incidere sulla sua economia e avviarla ad un lento declino, anche sul piano morale. Per di più. intorno al 700, oltre alla piaga assira, la Terra di Canaan deve sopportare le devastazioni e i saccheggi perpetrate da due popolazioni barbare provenienti dalla steppa euroasiatica: i Cimmeri e gli Sciti. La situazione è davvero critica, ma Giuda trova la forza per risollevarsi, anche approfittando del fatto che la potenza assira entra in una fase di rapido declino e viene abbattuta (612).
Adesso la potenza emergente è Babilonia e Giuda è costretto ad entrare nella sua orbita. Si ribella, ma viene conquistata (587). Il re, le famiglie aristocratiche e gli artigiani vengono deportati in Babilonia. È l’inizio dell’esilio e la fine di un sogno. Poi arriva il re persiano Ciro, il quale conquista Babilonia e concede agli ebrei di ritornare in patria e ricostruire il tempio (539). Inizia così il cosiddetto “periodo persiano, che sarà per gli ebrei uno dei periodi migliori. Il tempio viene ricostruito (516) e rappresenta il cuore della religione ebraica, anche se fuori dalla Palestina comincia ad affermarsi una religione di sinagoga, che è basata sulle sacre scritture e sulla Legge.

10. Cananei ed Ebrei

Tra la Fenicia, la penisola del Sinai, il mar Mediterraneo e il deserto arabico, si estende una regione, in parte fertile e in parte arida, che merita una particolare menzione per il tipo di cultura che vi si sviluppa, a partire dall’età del ferro, i cui influssi si faranno sentire per i secoli a venire. In epoca storica, questa regione vede avvincendarsi popolazioni diverse (cananei, filistei, giudei), che le daranno il nome, perciò verrà chiamata “Terra di Canaan”, “Palestina”, “Giudea”, a seconda del particolare momento storico. Nel lontano passato vi hanno coabitato homini sapiens e neandertalensis e, dunque, si tratta di una delle prime regioni abitate dall’uomo. Ciò nonostante, durante l’Età dei Metalli, essa si trova in condizioni di pesante ritardo rispetto non solo a quei mostri sacri che sono l’Egitto e la Mesopotamia, ma anche alla Siria e all’Anatolia.
Dopo un periodo di relativo e precoce progresso, che vede sorgere, tra l’ottavo e il settimo millennio, città come Gerico, la regione “offre uno spettacolo decisamente modesto” (LIVERANI 2003: 8) e decade lentamente e si riduce in una mediocre condizione provinciale. È solo un luogo di transito di carovane, che si muovono dall’Egitto agli altri grandi Stati della Fertile Mezzaluna e viceversa. Sembra la terra di nessuno. La popolazione residente, di origine amorrea (nota anche come cananea), è caratterizzata da una densità demografica tra le più basse, ed è composta da gruppi clanici e tribali, in parte nomadi e in parte sedentari, che vivono in modesti dominî e in poche e minuscole città-stato, che non superano i 3-4 mila abitanti e sono governate da un signore. Agli inizi del II millennio a.C., la situazione va cambiando, soprattutto a causa della progressiva crescita demografica, che pone i gruppi sempre a più diretto contatto fra loro e li spinge a competere, inducendoli ad organizzarsi sotto la guida di un anziano, di un condottiero o di un re. Mentre dominî e città lentamente si ingrandiscono, molte tribù continuano a vivere allo stato nomade, anche se, in linea con la tendenza del tempo, al loro interno non mancano coloro che desiderano una buona sistemazione stabile, in un luogo ricco di risorse.
Dopo aver subito l’influenza degli Hyksos, nel XV secolo la Palestina diventa una provincia egizia e tale resterà fino all’invasione dei Popoli del Mare (1200 ca.). In verità, l’Egitto manifesta un interesse assai scarso per la regione, limitandosi ad un debole controllo e alla riscossione dei tributi. Dopotutto quella terra non richiede una presenza militare massiccia, dal momento che le popolazioni residenti non brillano né per potenza, né per bellicosità, ma piuttosto, caso più unico che raro nel Vicino Oriente, tendono a vivere in pace, almeno fino a tutto il XIII secolo. Per quanto modeste e di scarsa importanza politica e militare, le città della Palestina sono situate nelle aree più ricche di risorse, generalmente lungo la costa oppure in prossimità delle poche aree pianeggianti e provviste di fonti idriche, che risultano particolarmente adatte all’agricoltura e all’allevamento, ma anche all’artigianato e al commercio. Fortificata da una cinta di mura e presidiata da guardie armate, ogni città ospita il signore, le famiglie patrizie, i delegati del faraone e i ricchi mercanti e controlla un ampio territorio circostante, che è diviso in latifondi, dove vivono e lavoravano numerose famiglie di contadini.
Nel suo insieme, dunque, la Palestina comprende due realtà ben diverse: da un lato il mondo relativamente opulento delle città, dall’altro lato la desolante realtà di un entroterra arido e montagnoso, dove alcune tribù nomadi conducono un’esistenza precaria, spesso costrette a stratagemmi di ogni tipo per poter sbarcare il lunario, come furti, perpetrati all’interno della propria tribù, rapine e aggressioni a danno delle carovane dei mercanti e perfino incursioni e assalti alle città. Talvolta, in caso di crisi particolarmente grave, è l’Egitto a rappresentare l’unica ancora di salvezza per una tribù nomade, ed è proprio in questa terra che si recherà Giacobbe, con la propria famiglia, trovandovi lavoro e di che sfamarsi. Siamo così entrati nella storia degli Ebrei.

9. I Fenici

Quelli che i Greci chiameranno Fenici (che significa “rossi”) dal colore rosso-porpora delle loro stoffe, sono uomini di lingua semitica destinati a diventare giustamente famosi per avere inventato e diffuso l’alfabeto, ma anche per le loro qualità di navigatori, commercianti e raffinati artigiani. Originari della regione, che corrisponde al Libano di oggi, spinti da qualche difficoltà (crescita demografica? Frequenti momenti di scarsità? Minaccia da parte di altri gruppi?), i Fenici prendono presto la via del mare e, nel corso dei loro viaggi, hanno modo di esplorare le coste del Mediterraneo e conoscerne la natura e le popolazioni che vi abitano. Alcuni lignaggi decidono di insediarsi in aree costiere lontane dalla madre patria, che conoscono da tempo o che stanno scoprendo in quel preciso momento, scegliendole per le loro caratteristiche di fertilità, posizione e assenza di nemici temibili.
A bordo delle loro navi, dove hanno stipato i loro averi, questi uomini avventurosi partono per un viaggio comunque rischioso e forse senza ritorno. Certo avranno un’idea di dove dirigersi e si avvarranno di informazioni di quanti li hanno preceduti, ma l’occupazione di un territorio, a meno che non sia disabitato, dev’essere un’impresa ardua e possibile solo in mancanza di una grande potenza politica residente (BENGTSON 1989: 86-8). Esplode così il fenomeno delle colonizzazioni.
A partire da circa 4000 anni fa, i Fenici fondano, lungo le coste del Mediterraneo, numerose città, fra cui ricordiamo Ugarit, Biblo, Tiro e Sidone, in Siria, e, nell’odierna Tunisia, la celeberrima Cartagine (814 a.C.), che, a sua volta, fonderà colonie nella Sicilia occidentale e in altri luoghi. Le città fenicie sono solitamente rette da una “monarchia democratica” simile a quella ittita. I poteri del re sono limitati sia da quelli del sacerdote, sia da quelli di un Consiglio di anziani, che rappresenta gli interessi della popolazione più abbiente: commercianti, armatori e proprietari terrieri.
Pur senza trascurare l’agricoltura, i Fenici si distinguono come eccellenti fabbricatori di “oggetti di lusso” (gioielli, vetrerie, profumi, mobili incrostati di metallo e di avorio), che trasportano con le loro navi e scambiano con altri generi. Non sono inclini ad impegnarsi in imprese belliche, ma cercano di convivere pacificamente con le potenze del momento, cui si sottomettono, dichiarandosi disposti a pagare il tributo richiesto e ad offrire i propri servigi, pur di essere lasciati liberi.

8. Gli Ittiti

La civiltà ittita trae origine da alcune tribù nomadi (Luviti, Nesiti, ecc.) provenienti dai Balcani e dall’Asia che giungono in Anatolia, circa 4000 anni fa, portando con sé il cavallo, animale sconosciuto in quell’area, che si rivela determinante per la conquista. Duecento anni dopo, queste tribù vengono unificate ad opera di un certo Anittas, ma in modo non stabile. Dopo un altro secolo di lotte fra i vari signori, infine un’unità stabile viene realizzata da Tabarnas (1680-50), che è considerato il fondatore dell’antico impero ittita, un impero in grado di durare per circa seicento anni, ma sul quale possediamo informazioni particolarmente scarse, anche a causa delle difficoltà che si incontrano per decifrarne la lingua, che è diversa sia da quella egizia che da quella sumero-accadica.
Gli succede Hattusilis I, che fonda la capitale Hattusa (1650) e getta le basi di un particolare ordinamento politico, che spicca per la presenza di un’istituzione “democratica”, prima sconosciuta, ossia un Consiglio dei nobili, che limita i poteri del re. I nobili, riuniti in assemblea, eleggono il sovrano in funzione delle sue qualità e attitudini al comando e gli giurano fedeltà in cambio di determinate concessioni, quali il diritto di sfruttare un certo territorio, di comandare i propri contingenti in caso di guerra, e altro ancora.
Ne risulta una società con un’impostazione di tipo feudale. Ogni signore è sovrano nel proprio territorio e vi esercita tutti i poteri. Solo in vista di importanti imprese militari i signori ittiti uniscono le loro forze a quelle del re e combattono come un sol popolo. Il potere del re è limitato non solo dal Consiglio, ma anche da altri fattori, come il rigido cerimoniale di corte, il potere accordato alla regina e il prestigio della classe sacerdotale, che gode di importanti privilegi fiscali e giuridici e che esercita anche poteri civili. Pur assumendo nomi divini, al pari dei re degli stati vicini, i sovrani ittiti non si identificano affatto con la divinità. “Solo dopo morto un re diventa dio” (LEHMANN 1986: 197). I sovrani ittiti sono solo uomini e, in un impero plurinazionale, la loro autorità è continuamente minacciata e messa in discussione. La morte del re è spesso seguita da lotte per la successione, che lacerano il tessuto sociale e indeboliscono il sistema. La debolezza dell’istituzione monarchica è tale da condurre all’instabilità politica e si rivelerà una delle principali cause della decadenza ittita.
Mursilis I (1620-1590) riesce sì a conquistare la Siria e Babilonia, ma non a contenere le mire indipendentiste dei singoli signori e, alla fine, viene ucciso. Si apre così un periodo di crisi, che è caratterizzato da lotte intestine per il potere, cui cerca di porre un freno Telepinus (1520-1490), il quale, al fine di mettere ordine in un sistema sociale tendenzialmente instabile, emana un codice di leggi, che regola, fra l’altro, la successione al trono, introducendo il principio della monarchia ereditaria. Ma ciò non sortisce l’effetto sperato e non basta ad evitare che gli Ittiti debbano subire la dominazione di un’altra potenza emergente, quella degli Hurriti, una casta guerriera di provenienza asiatica, che si insediano in Mesopotamia, dove fondano il regno di Mitanni (1600). Approfittando della politica imperialistica del faraone Tutmosi III, che indebolisce il Mitanni, gli Ittiti riacquistano la propria indipendenza e, con Tudhalija (1480-40), fondano il nuovo impero, che raggiunge il suo apogeo sotto il regno di Suppiluliumas (1380-46), il “Grande Ittita”, che estende il suo potere sul Mitanni. L’impero ittita viene travolto dai Popoli del mare intorno al 1200 e scompare letteralmente dalla storia. Gli stessi greci “non sapevano nulla degli Ittiti” (LEHMANN 1986: 284).
A parte la particolare concezione della monarchia, la civiltà ittita non presenta caratteri originali e creativi. La principale preoccupazione dei sovrani ittiti è quella di tenere uniti sotto il proprio controllo popoli diversi per lingua e cultura. A tale scopo, essi attuano una politica di mano tesa coi popoli sottomessi, che non vengono schiavizzati, ma elevati al rango di vassalli. Il diritto ittita si distingue per la sua mitezza: per la maggior parte dei reati, la legge prevede risarcimenti in denaro o in natura. L’economia è fondata principalmente sull’agricoltura, ma un posto di rilievo è occupato anche dall’industria mineraria e dal commercio. Gli Ittiti sono uno dei primi popoli a possedere armi di ferro e carri, e ciò conferisce loro un vantaggio iniziale. In seguito potranno contare sulle eccellenti qualità dei loro strateghi militari.
Al pari dei Babilonesi, gli Ittiti tollerano le differenti culture dei popoli dominati e le integrano con la propria. Si dice che essi sono soliti portare in patria, come bottino di guerra, anche i simulacri delle divinità dei popoli vinti, che introducono nel proprio pantheon, collocandoli accanto ai propri dèi, ne mantengono il nome originario e ne fanno oggetto di culto, ritenendo che le divinità straniere così catturate passano dalla parte del vincitore e si mettono al suo servizio. Gli Ittiti manifestano un profondo sentimento religioso, che poggia sulla credenza che le disgrazie e le malattie degli uomini sono castighi divini, di tutte le divinità esistenti, e si possono evitare per mezzo di purificazioni, sacrifici, preghiere e formule magiche. Perciò il culto è molto importante: esso svolge la funzione di accattivarsi i favori della divinità e di allontanare i mali.

7. I Neobabilonesi o Caldei

Mentre la potenza assira splende, Babilonia (detta anche Caldea, perché la maggioranza della sua popolazione è costituita da tribù caldee, di stirpe semita) è resa debole dalle contrastanti ambizioni dei capi locali, che sono in perenne conflitto fra loro e incapaci di unirsi in un’unica compagine politica. Nonostante i ripetuti tentativi di unificazione, tale situazione perdura per oltre due secoli e durante questo periodo Babilonia rimane sotto il controllo assiro. Quello che non era riuscito in precedenza a tanti illustri personaggi indigeni, diventa possibile ad uno straniero, un non-caldeo, un uomo di umili origini, un “figlio di nessuno”, un “usurpatore”, di nome Nabopalassar (626-605), il quale, approfittando anche del fatto che l’Assiria è già entrata nella sua fase di declino, riesce ad unificare Babilonia in un unico regno e a farne la nuova grande potenza dell’area mesopotamica. Naturalmente, com’è ormai costume consolidato, una volta conquistato il potere, Nabopalassar si premura a legittimarlo mettendolo sotto l’egida del dio Marduk. È stato il dio –si va dicendo– ¬a determinare gli eventi e il nuovo sovrano può regnare in Babilonia “in quanto scelto da Marduk” (PETTINATO 1994b: 165).
Babilonia raggiunge l’apice del suo splendore sotto il regno di Nabucodonosor (605-562), “uno dei sovrani più eccelsi di tutta l’antichità” (ivi: 18), “un sovrano illuminato, mite ed accorto, ben diverso da come ci è stato presentato finora” (ivi: 17). A lui spetta “indubbiamente il merito di aver fatto del piccolo regno di Babilonia un impero ancor più grande di quello realizzato dagli Assiri” (ivi: 139). Egli non solo ristabilisce l’ordine sociale e il diritto, ma abbellisce anche la città fino a farne “una metropoli spettacolare, ricca di palazzi, templi, case private e monumenti artistici pregevoli” (ivi: 99).
La struttura sociale neobabilonese non è molto diversa da quella delineata dal Codice di Hammurabi. Anch’essa è articolata su tre distinte classi di cittadini e fondata sul diritto di proprietà terriera, che è attribuito per meriti militari e tutelato dalla legge dello Stato. A differenza dell’Assiria, Babilonia preferisce aprirsi ed accogliere etnie diverse, giungendo a realizzare una straordinaria sintesi culturale ed un elevato livello di civiltà. Come tutti gli imperi che l’hanno preceduto, anche l’impero babilonese avrà vita breve e, infatti, cadrà nel 539. per mano di Ciro, ma, per diversi secoli, Babilonia conserverà “il ruolo di centro culturale notevolissimo di tutta la Fertile Mezzaluna” (ivi: 242) e, quando Alessandro entrerà trionfalmente nella città (331), ne rimarrà ancora così affascinato “da volerne fare la capitale del suo nuovo impero” (ivi: 247). Evidentemente la città continua ad essere ricordata come la patria di eccellenti astronomi e matematici. Sarà solo nel primo secolo d.C. che Babilonia, ormai ridotta ad un cumulo di rovine, potrà dirsi definitivamente decaduta. In futuro le verrà riconosciuto il grande merito di aver conservato e tramandato la gloriosa civiltà dei Sumeri.

6. Gli Assiri

Dopo la sumera e la babilonese, la terza grande potenza mesopotamica antica è costituita dagli Assiri, una popolazione semitica che, 5000 anni fa, abitava nella Mesopotamia settentrionale, in una regione di transito, alquanto povera di risorse naturali, ma particolarmente adatta agli scambi commerciali. È logico, dunque, che essi si siano affermati prevalentemente come mercanti. La storia delle loro origini appare travagliata e caratterizzata da brevi periodi di indipendenza alternati a lunghi periodi di sottomissione ad altre potenze, soprattutto i Sumeri. Più volte gli Assiri si impegnano in lotte per l’indipendenza, ma invano. La soggezione ad altre potenze deve essere vista come una vera e propria calamità, soprattutto per la perdita economica che essa comporta, ma anche per la perdita di libertà, cui il mercante non può rinunciare. Forse è questa la ragione principale per cui, ad un certo punto, gli Assiri decidono di unirsi e costruiscono un’inarrestabile macchina da guerra.
La svolta ha inizio sotto il regno di Assur-uballit (1365-1330), il quale intraprende una travolgente politica espansionistica, che raggiungerà il massimo livello sotto Sargon II (721-705 a.C.) e farà dell’Assiria la più grande potenza militare dello scacchiere vicino-orientale per tutto il IX e VIII secolo. Assur, una città che sorge sulle rive del Tigri (che in un secondo tempo assumerà il nome di Ninive), ne è la capitale. Assur è anche il nome del dio principale.
Il cambiamento è spettacolare e drammatico. Gli eserciti assiri sono ben organizzati e ben equipaggiati, anche per condurre guerre di assedio: dispongono di una solida fanteria e di cavalieri armati di archi e lance, oltre a carri da guerra, arieti, torri su ruote e servizi di supporto, che costituiscono quanto di più moderno sia stato mai visto. Gli Assiri praticano una guerra totale, senz’altro scopo che il saccheggio e lo sterminio. Avanzano inesorabili, attaccano di sorpresa, distruggono, depredano, massacrano i prigionieri, sottopongono le popolazioni ad atroci supplizi, non stabiliscono rapporti amichevoli con i nemici vinti, si impongono solo col terrore. I pochi risparmiati vengono deportati come schiavi e condannati a lavorare per i vincitori, mentre nei territori rimasti liberi dopo il genocidio vengono fatte affluire nuove popolazioni. L’intento è quello di cancellare la cultura del nemico vinto e di sostituirla con una nuova cultura, compatibile e asservita a quella assira.
Per sostenere e giustificare una politica così estrema, gli Assiri elaborano un adeguato sistema ideologico di tipo religioso, che è fondato su poche e semplici idee: Assur è di gran lunga il più potente degli dèi, l’Assiria è il centro del mondo, l’Assiro il vero uomo, gli altri popoli sono «senza dèi», o «abbandonati dai loro dèi», o «sostenuti da dèi inferiori», insomma nemici da combattere e sterminare senza pietà o civilizzare. Le azioni di conquista assire possono essere considerate le prime guerre di religione. In quanto sommo sacerdote di Assur, al re assiro è riconosciuto il compito di guidare la guerra santa contro gli infedeli. Quando tutti i popoli saranno sotto il dominio assiro, o come gli Assiri, allora il mondo sarà perfetto. Ed ecco allora perché gli Assiri possono comportarsi con ferocia inaudita e uccidere senza provare alcun sentimento di compassione.
Il fondamentalismo assiro, da un lato suscita l’inevitabile reazione dei popoli sottomessi, i quali non perdono occasione per liberarsi dal loro insopportabile giogo, dall’altro mette sull’allerta le popolazioni limitrofe, che vedono negli Assiri una temibile minaccia. Ben consapevoli di essere circondati da nemici, da cui si devono guardare, gli Assiri non possono abbassare la guardia e devono mantenere sempre efficiente la loro costosa macchina da guerra. Ma questa impresa si rivale, alla lunga, impraticabile. È impossibile, infatti, conservare in perfetta forma e per un tempo indefinito un grande esercito, soprattutto quando lotte intestine per il potere lacerano un paese, e tale è la condizione in cui versa l’Assiria. Così, a furia di combattere contro innumerevoli nemici e anche al proprio interno, la potenza assira crolla, quasi di schianto, per non risorgere mai più, lasciando increduli i contemporanei. Sotto l’attacco congiunto di Babilonesi e Medi, Ninive cade nel 612 e l’evento viene salutato con giubilo da tutti i popoli oppressi del Vicino Oriente . La storia dell’Assiria ci fornisce un chiaro esempio di quello che può succedere ad un paese che affida il proprio destino unicamente alle armi. Quando l’impero assiro cade sono presenti in campo quattro potenze: Egitto, Babilonia, Media e Lidia.

5. I Babilonesi

A raccogliere l’eredità culturale sumera sono i Babilonesi, la cui storia inizia allorquando (ca. 3900 anni fa) assume il potere la dinastia, che ha in Hammurabi (3792-3750) il sovrano di maggiore spicco. Prima di Hammurabi, Babilonia è una città di secondo livello nello scacchiere mesopotamico e altrettanto secondaria è la sua divinità tutelare, Marduk, ma, dopo che il grande re ha imposto la sua supremazia, anche Marduk viene promosso a signore supremo dell’universo e la sua gloria è celebrata dai letterati del tempo. Insomma, così come Babilonia ascende nel panorama politico, allo stesso modo Marduk fa la sua irresistibile scalata nel panteon mesopotamico. Dopo Hammurabi inizia un lento declino che culminerà con il dominio prima dei Cassiti (3594-3157), i quali finiranno per accettare e fare propria la cultura babilonese, e contribuiranno a diffonderla, e poi degli Elamiti, degli Aramei e infine degli Assiri.
Quando Hammurabi, membro di un clan amorreo, sale al trono di Babilonia, questa città è relativamente debole e deve barcamenarsi fra città più potenti. Per i primi sei anni Hammurabi si impegna a consolidare il suo potere all’interno della città, inizialmente sbarazzandosi di quanti possono insidiarlo, poi ricorrendo ad una saggia politica di alleanze. In un secondo tempo, riesce a sottomettere, una alla volta, le potenze vicine, fino a conquistare un impero. Esaurita la spinta espansiva, volendo dare stabilità al suo impero, Hammurabi, come Shulgi, si preoccupa di emanare delle leggi scritte, che – sostiene, vengono dal dio tutelare e, come tali, devono essere considerate indiscutibili ed eterne. È il Codice mesopotamico più famoso. Esso è giunto fino a noi inciso a caratteri cuneiformi su una stele di basalto, scoperta a Susa nel 1901, di forma pressappoco cilindrica e alta più di due metri, che contiene circa 3.600 righe di testo sormontate dalla figura del re nell’atto di ricevere le volontà del dio. Non si tratta di una raccolta di leggi in senso moderno, ma di una raccolta di 282 sentenze probabilmente emesse dal sovrano durante il suo regno e riguardanti casi reali o immaginari. Siamo ancora lontani da “quella disciplina fondata sul ragionamento che è il diritto” (AYMARD, AUBOYER, 1955: 143).
Perché Hammurabi avverte l’esigenza di scolpire, in modo così indelebile e scenografico, il suo operato di giudice supremo? La risposta va cercata nel fatto che ci troviamo al termine di un lungo periodo di sanguinose guerre, che ha visto contrapposte le più potenti città mesopotamiche e a cui ha posto fine Hammurabi, il grande re che, dopo aver provveduto, come è consuetudine, a dividere i territori conquistati e gli schiavi fra le famiglie che lo hanno appoggiato, adesso vuole costruire la pace. È in quest’ottica che va valutata la decisione di rendere pubblico il Codice, il quale assume il significato di un messaggio, forte e chiaro, che il re rivolge a tutti i sudditi e ai potenziali nemici: “qui comando io”, “la mia volontà è legge”, “la mia legge viene dal dio”, “io sono un re giusto e stare dalla mia parte conviene”. Il sovrano che ha imposto la sua autorità con la forza delle armi, ora si atteggia a paladino della giustizia, come risulta la prologo del Codice: “Anu ed Enlil nominarono me, Hammurabi, principe umile e devoto, perché facessi rispettare il diritto nel paese, togliessi di mezzo il violento ed il cattivo, in modo che il forte non opprimesse il debole”. Questo schema si ripeterà più volte nel corso della storia e diventerà una prassi abituale: dopo che le armi hanno indicato chi deve comandare, costui annuncia che governerà secondo giustizia!
In ultima analisi, dunque, la stele simboleggia la consacrazione e la legittimazione del potere di Hammurabi per volere del dio. Certo, Hammurabi non è mosso dal desiderio di far giungere alle generazioni future informazioni sulla società del suo tempo, eppure è proprio questo l’aspetto più importante del Codice dal punto di vista della storia. Quel poco che sappiamo della cultura di questi antichi Babilonesi, infatti, lo dobbiamo in massima parte a questo prezioso documento.
Lo spaccato sociale che si intravede, attraverso il Codice, è quello di una società stratificata e diseguale, distinta in tre categorie giuridiche di uomini: i “liberi” (amelu), cioè i proprietari di terre, che occupano il gradino più alto della gerarchia sociale; i “subalterni” (muskenu), cioè coloro che non possiedono terre, ma che si guadagnano comunque da vivere per mezzo di attività commerciali o artigianali, anch’essi considerati liberi, seppure a un livello più basso; gli “schiavi”, per debiti o prigionieri di guerra, che sono privi di libertà. La violazione della legge viene punita in modo più severo se ne è autore un amelu piuttosto che un muskenu, in accordo col principio che più elevato è il rango di una persona, maggiore è la sua responsabilità. Non sono segnalate discriminazioni razziali, né religiose: ciascuno è trattato secondo il proprio rango sociale, indipendentemente dalla razza, e ciascuno è lasciato libero di scegliersi il proprio dio.
Dei pochi princìpi di ordine generale, che possono essere desunti da alcune sentenze presenti nel Codice, i principali si riferiscono all’esigenza di assicurare la continuità della famiglia per mezzo di un figlio e di garantire la proprietà, quella proprietà che è stata conquistata con la forza e che ora diventa un diritto di famiglia, tutelato dal re. Per quel che riguarda i princìpi di giustizia espressi nel Codice, essi si ispirano principalmente alla legge del taglione, che ritroveremo in Mosè, ma prevedono anche la riparazione in beni o denaro, con pene che variano a seconda del reato e del rango sociale della persona che ha commesso o ha subìto il reato stesso. Così, per esempio, un uomo libero, che abbia rotto i denti ad un altro uomo libero, perderà i suoi; mentre, se la vittima è un subalterno, egli risarcirà il danno in denaro. Anche se, nel futuro, questa mentalità potrà sembrare in qualche misura discutibile, si tratta, comunque, di una giustizia che un dio in persona ha consegnato nelle mani di un re, da lui prescelto, affinché la applichi, e, pertanto, di una giustizia insindacabile, di cui il re si dichiara paladino supremo e ultimo garante. Peraltro, essendo esposto in forma scritta, si presume che il Codice rappresenti un passo avanti rispetto alla imprevedibile volontà del sovrano, un vero e proprio atto di civiltà.
La caduta di Babilonia, dopo circa tre secoli di storia, ad opera dei Cassiti, conferma quanto già emerso dalla storia dei sumeri, e cioè che le qualità politiche, da sole, non sono sufficienti a conservare nel tempo il potere di una dinastia.

4. Gli Egizi

La regione egizia è resa unica dalla sua particolare posizione geografica, che la vede isolata e protetta da ogni lato: a nord dal mare, ad est ed ovest dal deserto, a sud dalle cataratte del Nilo. A ciò si aggiunga il fatto che il Nilo, essendo in buona parte navigabile, favorisce gli spostamenti, le comunicazioni, gli scambi e lo sviluppo di una cultura e di un linguaggio comuni. La civiltà egizia è preceduta da fatti, che hanno a che fare con la diffusione dell’agricoltura e la cui sequenza ricalca quella già descritta a proposito di Sumer. Lungo le rive del Nilo l’agricoltura inizia intorno a 6300 Kyr fa (BLAINEY 2000: 51), facendo sì che molte famiglie estranee traessero le risorse per il proprio sostentamento da un territorio relativamente ristretto e fossero pertanto disposte a collaborare in vista di questo comune scopo.
Alla fine del Neolitico, la valle del Nilo è interamente occupata da innumerevoli accampamenti di gruppi nomadi, che si muovono sotto la guida di un anziano e/o di uno sciamano, mentre, qua e là sorgono villaggi permanenti o domini, ciascuno presieduto da un sacerdote e una divinità tutelare, e città-stato governate da re. Vivendo a stretto contatto e senza possibilità di fuga, i diversi gruppi devono fare i conti, come sempre, con l’inevitabile alternanza di periodi di abbondanza e periodi di penuria. Come sappiamo, è soprattutto nei momenti di scarsità che le famiglie si sentono motivate a cercare una soluzione e talvolta lo stato di malessere è tale da indurre gli sciamani e i sacerdoti a interpellare le loro divinità e chiedere lumi sul comportamento più opportuno da tenere e sulle iniziative da prendere. È meglio accordarsi pacificamente o tentare una via di fuga? È preferibile lo scontro armato autonomo o è preferibile cercare alleanze? Qualche ambizioso re approfitta di queste condizioni favorevoli per avviare una politica di conquista. Così avviene che, “attraverso successive fusioni di tribù sotto capi più potenti” (CIMMINO 1994: 141), si giunge alla formazione di due regni, il regno del Nord e quello del Sud, il Basso e l’Alto Egitto.
È solo intorno a 5100 anni fa, data in cui si suole collocare l’inizio della “storia” dell’antico Egitto, che Menes (o Narmer), re dell’Alto Egitto, riesce ad unificare i due regni, non si sa se a seguito di accordi pacifici o, come appare più probabile, con la forza delle armi, e fonda una dinastia, la prima dell’Antico Regno. Salito al trono, il giovane Menes si preoccupa innanzitutto di consolidare il suo potere, realizzando condizioni di pace e di giustizia, finché, un giorno, decide di riunire i principali sacerdoti del suo regno e rivolge a loro pressappoco queste parole:

Ringrazio il dio che, dopo avermi prescelto come suo umile servo e figlio prediletto, mi ha concesso la vittoria e ha consegnato nelle mie mani un grande paese. Lo stesso dio mi ha manifestato in sogno le sue volontà. Egli vuole che io assuma le funzioni di sommo sacerdote e mi dà facoltà di prendermi cura del suo paese. In virtù di questa autorità concessami dal dio, ordino che ciascuno di voi provveda a delimitare i confini del proprio territorio, assegni a ciascuna famiglia di contadini un terreno da coltivare e a tutte le altre famiglie uno spazio dove svolgere la propria attività lavorativa, con l’unico impegno per tutti di versare un tributo al grande dio. In quanto a voi, vi assegno il compito di amministrare la vostra gente e di vigilare affinché ciascuno rispetti il proprio spazio, svolga bene il proprio lavoro e versi il dovuto al tempio. Da parte mia, mi impegno a proteggervi tutte le volte che sarete minacciati da un qualche pericolo e me ne farete richiesta, e vi aiuterò anche ad amministrare la giustizia.


I sacerdoti riconoscono la natura ispirata di quelle parole e perciò le accettano con entusiasmo e plaudono al loro grande re, che prima si insedia a Thinis, la città resa illustre da Figlio di Tuono, poi fonda Menfi, che diviene la prima capitale del “Regno Unito”, e la Prima Dinastia, dando così inizio alla straordinaria storia dell’Egitto.
L’Antico Regno (3000-2181) si rivela particolarmente stabile e, già durante la prima dinastia, fanno la loro comparsa le prime forme di architettura in mattoni, che trova applicazione soprattutto nella costruzione di tombe, e la scrittura ideografica (CLARK 1986: 308-9). L’opera di Menes viene proseguita dai successori, che dividono il paese in province, le affidano a funzionari e le amministrano attraverso un rigido e articolato apparato burocratico. Grazie alla sua organizzazione e ai suoi confini naturali, che lo proteggono da ogni parte, l’Egitto può finalmente iniziare a godere di un lungo periodo di pace e ciò consente al suo sistema sociale di consolidarsi, attorno alla figura del re-sacerdote. Almeno a partire dalla Quinta Dinastia, si ritiene che il faraone sia generato da una madre umana senza intervento di un padre umano e senza atto sessuale, ma attraverso il volere espresso dalla divinità (TOYNBEE 1981: 299). Questa credenza nella natura divina del re non cesserà mai del tutto nel corso della lunga storia dell’Egitto e costituirà un elemento caratteristico di questo paese. “L’Egitto faraonico ci fornisce uno degli esempi più impressionanti di monarchia assoluta: il diritto divino, fondamento di tutte le monarchie di questo genere, vi ha trovato la sua espressione più energica e le conseguenze più estreme” (AYMARD, AUBOYER, 1955: 34).

Dietro la divinizzazione, il nulla
“Gli uomini, ..., divinizzano troppo spesso il potere. Attribuiscono ai capi una facoltà pressoché illimitata di modificare la storia del mondo. Immaginano che i governanti esercitino un pieno controllo sulla politica, sull’economia, sulle burocrazie, sugli apparati militari. Ma si ingannano. La realtà del potere è diversa dalle apparenze. Un capo conosce molto poco il mondo che lo circonda, e molto poco riesce a trasformarlo...” (MELOGRANI 1977: 1). “In un mondo così pieno di incertezze, di contraddizioni e di pericoli, molti cercano di rassicurarsi immaginando che esista un «potente», il quale sia sempre in grado di cogliere la realtà delle cose e di compiere le giuste scelte. E il «potente», se vuole recitare in modo convincente la sua parte, deve partecipare all'inganno. Con gli onori, le pompe, le parate, i cerimoniali, egli deve occultare a se stesso e agli altri la sua insicurezza e la sua miseria” (MELOGRANI 1977: 1-2).

L’Antico Regno si dissolve non già ad opera di un attacco esterno, ma a causa di una rivoluzione sociale interna, che è indotta dalla spinta indipendentista dei signori locali e si risolve nella frantumazione del Regno in una miriade di principati e in una situazione di caos politico sempre meno tollerabile. I tentativi di ricomporre l’unità giungono a buon fine intorno al 2050, quando Mentuhotep II inaugura il Medio Regno (2050-1720), ma i faraoni dovranno combattere ripetutamente contro signori locali recalcitranti, che non si rassegnano all’obbedienza. Il risultato di questa nuova situazione politica è la costruzione di fortezze, che costituiscono l’elemento caratteristico di questo periodo. Il Medio Regno si chiude con l’invasione degli Hyksos, che introducono in Egitto il cavallo e il carro da guerra.
È Amosis che riesce a cacciare gli Hyksos e fondare il Nuovo Regno (1575-1090). Tra i faraoni di questo periodo si distingue Thutmosi III (1504-1450), il quale “è stato, con tutta probabilità, il primo grande condottiero della Storia dopo Sargon; certamente, il primo delle cui imprese si abbia notizia in modo dettagliato, anche perché egli stesso si preoccupò di portarsi dietro, nelle sue diciassette campagne, degli scribi che annotassero e infiorettassero le sue imprese” (FREDIANI 2005: 540). Se Thutmosi III spicca come uomo d’azione, Amenofi IV (1364-1347 a.C.) lascia il suo segno come uomo religioso e verrà ricordato come colui che ha tentato, senza successo, di imporre in Egitto una religione monoteista, che ha nel dio-sole, o Aton, il suo unico dio. Dopo aver cambiato il proprio nome in Ekhnaton, che vuol dire «Colui che è utile ad Aton», il faraone adotta misure energiche allo scopo di imporre la nuova dottrina, tra cui la cancellazione dei nomi delle altre divinità (GARDINER 1971: 208) e il rinnovamento dei quadri amministrativi dello Stato con funzionari, ai quali viene richiesto, come requisito essenziale, l’avere abbracciato la nuova fede.
Molti accettano allora il monoteismo, ma molti altri vi si oppongono, specie i sacerdoti e il personale addetto al culto delle numerose divinità d’Egitto, che rischiano di scomparire. È possibile che Mosè, e gli Ebrei che lo seguiranno fuori d’Egitto, abbiano serbato il ricordo del monoteismo di Ekhnaton e ne siano stati influenzati. Dopo la fine della ventesima dinastia (1090) la storia dell’Egitto è segnata dal dominio di forze straniere (nell’ordine: assiri, persiani, greci e romani), ma, nondimeno, la civiltà egizia sopravvivrà fino alla morte di Cleopatra (30 a.C.).
La società egizia costituisce un’autentica novità nel panorama mondiale: è una società che cala dall’alto, come se fosse stata disegnata dal dio in persona, a forma di piramide, rigidamente divisa in caste chiuse e dove a ciscuno è assegnato un compito ben preciso. Al re e sommo sacerdote, il dio stesso ha riservato un ruolo e ha deciso che a quel ruolo si può accedere per diritto di nascita. Da qui alla divinizzazione del re, il passo è breve. Nasce così il faraonismo, ossia un sistema sociale ordinato intorno alla figura di un re-dio. La divinizzazione del sovrano rende possibile la realizzazione di una società umana di dimensioni mai viste prima. Milioni di persone sparse su un territorio di centinaia di migliaia di Kmq, che, in quando sudditi dello stesso re-dio, si ritengono appartenenti allo stesso popolo e condividono la stessa cultura, costituisce un fenomeno nuovo e straordinario, in precedenza nemmeno immaginabile.
In teoria l’intero paese si considera proprietà degli dèi e vive per gli dèi. In realtà, ogni persona e ogni cosa appartengono al faraone, anche se questi non manca mai di riconoscere, umilmente, che il proprio potere viene dal cielo. In ogni caso, per l’Egitto il faraone è tutto: è sommo re e sommo sacerdote, è uomo e dio, e ciò gli conferisce un potere assoluto. Egli è consapevole delle proprie origini divine o, almeno, così lascia credere. “Sono il figlio vostro, creato dalle vostre due braccia. Voi mi avete fatto sovrano Vita, Salute, Forza di ogni paese. Voi avete fatto di me la perfezione sulla terra” (CIMMINO 1994: 138). Il faraone incarna lo spirito dell’intero paese e la sua volontà ha valore di legge. Ciò spiega perché gli egizi non avvertono l’esigenza di elaborare alcun codice di leggi (BRIGHT 2002: 55). Nessun individuo, a parte il faraone, è riconosciuto portatore di diritti propri. Tutti sono sudditi e gli stessi funzionari possono solo esercitare un potere riflesso.
Poiché non può gestire ogni cosa da solo, il faraone si serve di collaboratori, che sceglie quasi sempre nella cerchia dei suoi parenti e delle persone più fidate, cui distribuisce il patrimonio dello Stato e conferisce uno status nobiliare. Il paese è effettivamente governato da un vice del faraone, detto visir, che è coadiuvato da una ristretta schiera di funzionari di primo livello, i quali, a loro volta, affidano il proprio territorio a funzionari di secondo livello, e così via. Il paese è suddiviso in una quarantina di distretti, chiamati “nomi”, ciascuno dei quali è amministrato da un funzionario del faraone. Alla fine ne risulta “una forma di feudalesimo” (CIMMINO 1994: 157-8).
Grazie a questo imponente apparato burocratico, il faraone è in grado di conoscere tutte le risorse naturali e umane del regno e provvedere alla sua amministrazione. Ogni risorsa economica del paese (bestiame, campi, imbarcazioni, alberi), ogni impresa produttiva (manifatture, cave di pietra, miniere, botteghe), la forza lavoro (contadini, artigiani, artisti, mercanti), tutto è scrupolosamente registrato e a tutti, con poche eccezioni, lo Stato chiede un’imposta oltre ad un contributo di lavoro personale. Su tutto vigila il visir. Faraone, visir, sacerdoti, scribi e funzionari costituiscono il vertice della piramide sociale, ossia una ristretta elite aristocratica, che controlla pressoché tutte le risorse del paese e che è ben distinta dal resto della popolazione. Ecco un chiaro esempio di società duale.
Gli egizi disprezzano i pastori, che considerano nomadi selvaggi. La loro principale risorsa economica è l’agricoltura: si coltivano, in prevalenza, orzo, frumento, legumi, alberi da frutta, vite, lino e cotone. Molto praticato è anche l’allevamento di diversi animali, come il bue, l’asino (il cavallo dopo gli Hyksos), il maiale, il montone, la capra, oche e anatre (i polli sono sconosciuti). La quantità del raccolto dipende dall’inondazione del Nilo: “un’inondazione insufficiente significava carestia, un’inondazione troppo abbondante significava l’impossibilità di seminare per tempo” (CIMMINO 1994: 197). Allo scopo di controllare il corso delle acque, gli uomini realizzano un sistema complesso di dighe, chiuse, canali e bacini. Il lavoro dei contadini è ingente e frustrante. Essi, infatti, lavorano tutto il giorno, ma poi, dovendo consegnare una parte del raccolto al faraone, resta loro solo di che sfamarsi e vivono poco al di sopra del limite della pura sussistenza. Leggermente migliore è la condizione degli artigiani (orefici, ebanisti, tessitori, tintori), i quali, lavorando al diretto servizio del faraone e dei suoi funzionari, possono marginalmente beneficiare dei loro privilegi.
Il commercio nasce dalla necessità di procurarsi oggetti e materie prime, come il legname, di cui il paese è carente, che vengono scambiati con altra merce. Anche per questo si avverte la necessità di costruire strade. Viaggiare è comunque rischioso e di solito ci si muove solo in caso di stretta necessità e in gruppi organizzati. La moneta rimarrà sconosciuta fino a quando non verrà introdotta da Alessandro Magno e dai suoi successori.
Per la maggior parte della sua lunga storia, l’Egitto vive in pace, accontentandosi di difendere i propri confini da infiltrazioni indesiderate. Se si eccettuano i pochi faraoni che si impegnano in politiche espansionistiche, per il resto la guerra costituisce raramente una necessità primaria per l’Egitto e, per conseguenza, relativamente scarso è il prestigio di cui godono i guerrieri. Quando la situazione lo richiede, il faraone non deve far altro che ordinare ai governatori delle sue province di arruolare e addestrare un certo numero di guerrieri, anche se col tempo diverrà più frequente il ricorso a truppe mercenarie. Accade che un generale mercenario riesca ad usurpare il potere, ma, in genere, egli deve giustificare il suo comportamento per mezzo di un matrimonio con una principessa della dinastia precedente o riconducendolo alla volontà divina. L’arruolamento è un obbligo che viene imposto con la forza, ma non mancano coloro che lo fanno volontariamente, attratti dal desiderio di sottrarsi ad un’esistenza grama e alla speranza di conquistare un ricco bottino. Col tempo si tenderà a ricorrere a truppe mercenarie e sarà data la possibilità a chi se lo potrà permettere di farsi sostituire da un altro in cambio di denaro. Inizialmente l’esercito è composto solo dalla fanteria, ma, intorno al 3700 BP, gli Hyksos, una popolazione mista formata da gruppi di avventurieri di diversa provenienza, introducono l’uso del cavallo in azioni di guerra. Dopo una campagna militare, i soldati vengono congedati e, in caso di vittoria, molti di essi riescono a portare a casa una parte del bottino, mentre agli ufficiali vengono elargite prebende, incarichi remunerativi e, più raramente, anche schiavi.
La schiavitù invero è un fenomeno scarsamente rappresentato, ma esistente. In Egitto è possibile diventare schiavo per insolvenza di debiti, tuttavia lo schiavo, con l’eccezione del prigioniero di guerra, non perde del tutto i diritti civili, come accadrà in Grecia e a Roma, ma gli viene concessa la facoltà di un’esistenza tollerabile. L’Egitto ospita qualche popolazione straniera, che è destinata a svolgere lavori umili, ma pur sempre in condizioni non molto diverse da quelle in cui versano le classi più modeste della stessa popolazione indigena. Tale sarà il caso degli Ebrei. In Egitto a tutti è riconosciuto almeno il diritto ad un’esistenza tollerabile, perfino agli schiavi, e le donne non vengono trattate peggio degli uomini. Alcuni schiavi vengono selezionati in base alle loro qualità personali e destinati a specifiche mansioni: alcuni vengono reclutati come soldati, altri come interpreti e qualcuno può perfino accedere alla carriera amministrativa, come testimonia il racconto biblico di Giuseppe. Ne risulta una società tutto sommato umana, altrimenti non si spiegherebbe il profondo attaccamento del popolo a quel sistema.
Tale è l’essenza dell’Antico Egitto: un grande popolo con una sola volontà; uno Stato monolitico, autarchico, chiuso, pieno di sé, misoneista; un sistema politico nato perfetto, ma, proprio per questo, non ulteriormente perfettibile, statico, immobile, fossilizzato; una sorta di formicaio, dove ognuno è prigioniero del proprio ruolo e dove si ignora il valore della libertà; un mondo improntato dall’alto e dove l’individuo ha scarso valore. Ciò che conta è solo l’ordine sociale e lo spazio prestabilito dove ciascuno è chiamato a muoversi, che sono ritenuti di origine divina. A rigore, nemmeno il faraone può essere considerato un uomo libero. Anch’egli, infatti, costituisce una parte di quel sistema ed è “costretto” a recitare il ruolo assegnatogli. Gli egizi non riescono, o non vogliono, concepire un modello di società alternativa e rimangono legati a quel mondo immobile, che li fa sentire sicuri di vivere nella società migliore possibile e governati da un “uomo-dio”, le cui decisioni sono le migliori possibili. Non ci sorprende, allora, se in Egitto le rivolte popolari sono rare: le masse, che spesso vivono in condizioni di mera sussistenza, non ritengono di essere sfruttate o, comunque, accettano lo stato in cui versano come inevitabile. Da ciò trae origine lo spirito di sottomissione e la docilità di questi miserabili, che subiscono quasi con gioia l’ordine faraonico, che in realtà li opprime.
Un tratto distintivo dell’uomo egizio è la sua tendenza a proiettare la religione in una realtà ultraterrena, in un aldilà, che è ritenuto superiore e maggiormente desiderabile rispetto alla vita terrena. Gli Egizi sono i primi al mondo a credere nell’esistenza di un’anima, o spirito vitale, detta Ka, che abbandona il corpo al momento della morte, ma può ricongiungersi ad esso, a condizione che ne sia mantenuta l’integrità . Dopo che si sono ricongiunti, corpo e anima iniziano il cammino nell’aldilà, dove vengono giudicati nel tribunale di Osiride e, se considerati degni, entrano nel mondo eterno del dio Ra, l’equivalente del paradiso. Per questo gli Egizi imbalsamano i cadaveri e li seppelliscono in una tomba, che deve avere il più possibile le sembianze di una dimora eterna e adeguata al rango del personaggio.
Ora, poiché l’uomo più importante è il faraone, a lui spetta un trattamento speciale, affinché sia sottratto alla terribile e degradante realtà della morte. “Dio mentre vive, il re continua ad esserlo dopo la morte” (AYMARD, AUBOYER, 1955: 22). Da ciò prende corpo la pratica di conservare il corpo del faraone e di erigergli una casa per l’eternità, la cosiddetta “Grande Casa”, il simbolo della sua immortalità. Tale è la piramide. Per costruirla è necessario il lavoro di migliaia di operai e di schiavi, ai quali è negato il diritto ad una onorevole sepoltura: evidentemente il loro Ka è ritenuto privo di valore e si pensa che essi possano già considerarsi sufficientemente onorati per aver servito il faraone-dio. La piramide ha una struttura così solida da poter sfidale il tempo nei millenni a venire. Invece, nessuna traccia sopravvivrà dei palazzi dei faraoni, perché essi sono di modesta fattura: evidentemente, gli egizi danno maggiore importanza alla vita nell’aldilà piuttosto che alla vita terrena.
La fede nell’anima facilita (ed è facilitata) dalla fede negli spiriti, spiriti di ogni tipo, con cui gli uomini devono rapportarsi e confrontarsi. In questo contesto acquista rilevanza il sogno, che viene ritenuto il campo d’azione dello spirito. Durante il sogno, l’uomo vede uno spirito che agisce e parla. Questo spirito può essere la propria anima o l’anima di qualsiasi altro uomo, morto o vivente, o un dio, che entra in rapporto col dormiente allo scopo di comunicargli qualcosa di importante, soprattutto quando a sognare è il faraone. Il compito di interpretare i sogni viene di norma affidato alla classe sacerdotale, ma anche a persone che, per un verso o per l’altro, sembrano speciali. Anche l’esperienza della morte può rafforzare la fede nell’anima, nel senso che l’anima può fornire una spiegazione “scientifica” della morte e, al tempo stesso, costituire un superamento della stessa. Da dovunque provenga, la credenza nell’anima si accompagna ad una serie di altre credenze, che vanno a confluire nella specifica religione egizia, come la fede nell’immortalità. Intorno a 3,5 Kyr fa, l’autore del Libro dei morti scriveva che dopo la morte l’uomo viene giudicato davanti al tribunale di Osiride e punito o premiato a seconda della sua condotta morale.
Per gli egizi, la vita terrena è solo una tappa intermedia, mentre la morte segna l’inizio della vera vita, quella eterna. Ciò spiega perché gran parte delle risorse del paese viene impiegata “per scopi funerari o per il mantenimento del culto dei morti” (CIMMINO 1994: 32). Nel complesso, gli egizi costruiscono “solo case modeste per la loro breve vita terrena, riservando tutti i fasti alla «casa eterna», ove avrebbero trascorso la vita nell’aldilà” (VARDIMAN 1998: 254). Perciò, le case, anche quelle sontuose, sono fatte con materiale deperibile. Ciò non toglie che la dimora riflette la gerarchia sociale, e così la gente comune risiede in casupole o capanne, tutti gli altri in abitazioni di diversa tipologia, in rapporto al proprio rango. Il faraone vive in un palazzo tanto grande da ospitare comodamente la sua numerosa famiglia, i suoi funzionari, le sue guardie e la sua servitù, e tanto lussuosa da rispecchiare il suo status, ma lontano dall’imponenza, dalla sontuosità e dallo sfarzo delle regge mesopotamiche.
Liberi da ogni preoccupazione per la sussistenza e non svolgendo attività manuali, gli alti funzionari possono dedicarsi ad attività di pensiero, ed è soprattutto a loro che dobbiamo quella che viene chiamata civiltà egizia, almeno per quel che concerne una serie di acquisizioni in discipline, come la geometria, l’architettura, l’astronomia, l’astrologia, la medicina e la filosofia, che vanno ad aggiungersi ai numerosi progressi tecnici maturati in diversi campi, come la coltivazione della terra, la mummificazione dei cadaveri e i lavori artigianali e artistici. In tutti questi campi, gli egizi si cimentano principalmente per rispondere ai problemi concreti della vita quotidiana, certo, ma anche per puro astrattismo e semplice curiosità intellettuale.
Nel tempio e nel palazzo, accanto agli scribi che si occupano prevalentemente dell’amministrazione dello Stato, ci sono altre figure di scribi, che possiamo chiamare artisti, il cui compito è quello di creare cose belle per onorare gli dèi, osannare il faraone e decantare il sistema sociale vigente. Essi contribuiscono nel dare risalto alle imprese del faraone, attraverso la realizzazione di stele, lapidi, obelischi, statue, templi, o altro, cu cui l’artista appone i suoi simboli scritturali. Gli scribi producono anche opere di vario genere letterario, ma a nessuno viene in mente “di redigere una cronaca degli avvenimenti seguendo un metodo storiografico” (CIMMINO 1994: 53). La storia interessa gli egizi soltanto a fini dinastici e si riduce “a poco più che liste di nomi, alla somma degli anni di regno di ciascun sovrano e alla annotazione di alcuni fatti essenziali” (CIMMINO 1994: 301).
Il campo in cui gli egizi si esprimono al massimo livello è la religione, che si sviluppa a partire dai culti locali dei clan e delle tribù. La casa del dio, che inizialmente è una semplice capanna di giunchi, con annesso un luogo di raccolta delle offerte, col passare del tempo, si va trasformando in un monumentale tempio costruito in pietra per durare in eterno e che, oltre al magazzino, comprende grandi territori che, concessi in proprietà dal faraone, vengono amministrati dal sacerdote e dati da lavorare a molte famiglie di contadini. Nel tempio possono accedere solo i sacerdoti, i quali, solitamente, si limitano a svolgere atti rituali in modo autonomo, senza preoccuparsi di uniformare le attività di culto con quelle degli altri sacerdoti, né di creare elaborati sistemi dottrinali e dogmatici, né di fondare una chiesa, né di prendersi cura delle anime. L’essenza della loro religione è la celebrazione del rito, la cui funzione è quella di attirare la benevolenza del dio. A fronte di questo impegno modesto, essi possono contare su solide entrate, e perciò il ruolo sacerdotale è molto ambito. Generalmente si diventa prete “per eredità o per acquisto della carica, più raramente per elezione” (CIMMINO 1994: 108).
Per dare una risposta agli interrogativi più angoscianti della loro esistenza, più che alla scienza, gli egizi tendono a ricorrere all’elemento religioso, che essi sviluppano in modo superlativo. La conseguenza è che, se il loro apporto scientifico è sicuramente inferiore a quello dei mesopotamici e se la loro produzione letteraria è, in qualche modo, subordinata e attinente alla religione, le loro concezioni teologiche sono tra le più avanzate. Gli egizi concepiscono, per esempio, che un dio ha creato l’uomo ad immagine di sé e il mondo in funzione dell’uomo, che la malattia è una punizione divina per i peccati dell’uomo, che gli dèi sono inclini alla misericordia e al perdono, e che perciò bisogna pregarli, che la preghiera non serve solo per ottenere la guarigione delle malattie e per aiutare i vivi, ma anche per salvare le anime dei morti (CURTO 1981: 163-4). Coerentemente con questi princìpi, si diffonde l’usanza di scrivere, prima sulle pareti della tomba del faraone e poi su papiri, che vengono introdotti nel sarcofago o infilati fra le bende della mummia, invocazioni e formule magiche, che hanno la funzione di guidare lo spirito del defunto nel suo cammino verso il mondo del dio Ra. Successivamente questi testi saranno raccolti in quello che è noto col nome di Libro dei Morti.
Gli egizi si pongono anche il problema del male e, anche se non approdano ad una conclusione univoca, formulano delle congetture destinate ad avere un futuro, del tipo: 1) il male è conseguenza necessaria della libertà concessa dal dio all’uomo; 2) il male è una realtà esistente per volontà imperscrutabile di un dio e all’uomo altro non resta che piegarsi impotente al destino che lo sovrasta; 3) il male è opera di un dio malvagio, che si contrappone al dio del bene: è la concezione dualista. Queste idee saranno riprese non solo dagli Ebrei, ma anche dai filosofi e pensatori greci, dalle religioni dualiste (zoroastrismo, manicheismo, gnosi) e, in parte, anche dal cristianesimo.
Nel complesso, la civiltà egizia mostra come un coacervo di famiglie e tribù diverse per tradizioni, cultura e interessi, possa essere tenuto unito come se fosse un sol popolo, in condizioni di pace prevalente. Gli egizi hanno potuto organizzarsi nell’assenza di minacce esterne e, sotto questo aspetto, essi costituiscono un caso raro. Una volta fissati i princìpi religiosi su cui fondare questa società e una volta stabilito il ruolo delle singole famiglie, è stato relativamente facile per un faraone svolgere le sue funzioni di governo. Il segreto della stabilità della società egizia risiede nella somma legittimazione del faraone-dio, la cui autorità non è quasi mai messa in discussione. La volontà del faraone è legge e qualunque cosa decida il faraone è bene. La stessa presenza del faraone rende superflua l’elaborazione di un diritto, almeno di un diritto paragonabile a quelli mesopotamici: si conoscono, tuttavia, raccolte di leggi di tono minore. La legittimazione del faraone è tale che egli non ha da temere l’affermazione di rivali: tranne le immancabili eccezioni, un faraone può essere ucciso e usurpato, ma non sfidato pubblicamente da un nemico interno. Governare in queste condizioni è facile e non richiede l’uso di una grande forza. Gli egizi si lasciano governare più con le idee che con le armi: il faraonismo è più un fatto culturale che un’espressione di forza. Il maggior pericolo per il governo del faraone può venire solo dall’esterno, e si tratta di un’evenienza rara.

3. I Sumeri

Sumer è una regione prospiciente al Golfo Persico, grande come la Lombardia e disseminata di villaggi e città-stato, dove vivono mezzo milione di persone. Il clima è arido, ma è compensato dalle acque del Tigri e dell’Eufrate, che possono essere utilizzate sia a scopo di irrigazione sia per trasportare le materie prime, anche se ciò richiede un’adeguata organizzazione sociale. Non c’è legname da costruzione, né pietre, né marmo, né rame, né oro, né argento e il ferro, pur essendo noto, non è ancora usato, perché non si dispone ancora della tecnologia adeguata. Vi abbondano invece materie povere, come l’argilla e la canna. In questa terra, intorno a 5.500 anni fa, calano alcune tribù asiatiche, che riescono ad insediarvisi stabilmente, imponendosi o integrandosi con le popolazioni locali e ad organizzarsi. Sono i Sumeri, uomini laboriosi e inclini al lavoro disciplinato e collettivo, che imparano a canalizzare le acque dei fiumi, sì da renderle non solo innocue, ma anche utili per la fertilità dei campi, ad utilizzare in modo assai ingegnoso, canna e argilla per ricavarne mattoni, con cui edificare città in grado di resistere alle intemperie per migliaia di anni, a costruire supporti e stili per scrivere e amministrare lo Stato.
I Sumeri sono “i primi a inventare la città, i primi a inventare la scrittura, i primi a inventare la scuola, i primi a introdurre l’istituto regale, e così via” (PETTINATO 1994a: 385-6) e, nonostante non conoscano né il cavallo, né il cammello, la sola bestia da soma su cui possono contare essendo l’asino, possono essere indicati come i “veri promotori della civiltà umana in assoluto, la stessa civiltà che è anche la nostra, sicché è lecito considerarli, almeno in parte, nostri antenati e precursori” (PETTINATO 2003: 9-10).
Grano, orzo, lana e olio sono prodotti in quantità tale da costituire un surplus, che viene scambiato con materie prime, che a loro volta alimentano una fiorente industria di trasformazione, da cui Sumer trae ricchezza. Lo sviluppo dell’agricoltura, se da un lato consente un’economia di accumulo e migliora le condizioni di vita, dall’altro determina un incremento demografico e genera nuove esigenze, prima fra tutte quella di difendere le terre coltivate e il surplus dai numerosi malintenzionati, che possono essere individui isolati, piccole bande o intere tribù.
Da questo momento, risulta evidente che il futuro di ogni comunità dipende dal suo grado di organizzazione e dalle sue capacità di difesa. Perciò i villaggi tendono a trasformarsi in dominî, in strutture, cioè, polivalenti e adatte tanto a custodire e proteggere i beni prodotti, quanto a procurarsene a danno di altre comunità. Adesso i villaggi hanno un capo, che è l’antesignano del re, e una milizia armata, che prefigura l’esercito permanente, e, mentre la maggioranza della popolazione è occupata nella coltivazione dei campi, una piccola parte di essa si specializza nella produzione di arnesi da lavoro, armi e suppellettili, insediata all’interno del villaggio, dove può contare su un’adeguata protezione. I prodotti artigianali si aggiungono a quelli agricoli e costituiscono un unico surplus, che viene custodito in appositi luoghi fortificati e presidiate dalle guardie.
La figura del contadino, che vive lontano dal villaggio, in stretto legame con la sua terra, è quella maggiormente esposta ai pericoli, che per lo più provengono dai pastori-predoni, da quelle persone cioè che hanno deciso di vivere in autonomia e senza particolari legami, che si spostano da un luogo all’altro con le loro greggi e le loro famiglie, che si appropriano di qualunque cosa indifesa trovino nel loro cammino e, se scoperti con le mani nel sacco, non esitano ad uccidere. Il contadino si viene a trovare in una situazione paradossale: da un lato, il suo lavoro è fondamentale e irrinunciabile, dal momento che da esso dipende la sussistenza dell’intera comunità; dall’altro, esso è il più esposto ai pericoli, il più vulnerabile, il più incerto e precario, e non solo per il rischio che viene dai predoni, ma anche per il rischio che viene dalle intemperie, dalle inondazioni, dalla siccità, dal vento, dal fuoco, dai parassiti e dalle malattie.
In teoria, il contadino può contare sulla protezione del capo, le cui guardie fanno la ronda e danno la caccia alla criminalità organizzata. In pratica però, questo servizio si rivela spesso insufficiente e spesso egli deve difendersi da solo. In cambio di questo, seppur teorico, servizio, il contadino è tenuto a versare una parte del raccolto al capo, né più né meno di come avviene in Egitto nello stesso tempo. La riscossione delle imposte è inflessibile ed è vista dal contadino come una vera e propria calamità. “Il contadino temeva soprattutto due disgrazie: le cavallette e lo «scriba delle tasse»! I risultati erano identici: una parte del raccolto spariva, con la differenza che lo scriba era accompagnato da guardie armate di bastoni, che avevano il compito di convincere il contribuente recalcitrante a versare le sue tasse tirando fuori il grano che aveva nascosto!” (CHIERICI 1980: 32).
I problemi del contadino non finiscono qui, i suoi beni essendo insidiati non solo dalle avverse condizioni climatiche, ma anche da pastori, bande armate e eserciti di passaggio, che fanno razzia di tutto ciò che possono. Generalmente il contadino si trova indifeso e soccombente, e non gli resta altro che confidare nella fortuna e nella benevolenza della divinità. In teoria, qualora dovesse essere depredato di tutto, eccetto che della vita, il contadino potrebbe sperare di poter accedere al surplus del tempio, ma non è detto che il sacerdote glielo consenta. Egli, per esempio, potrebbe voler accertarsi che il contadino sia incolpevole del disastro, e sarebbe ben difficile che questi possa scagionarsi da ogni responsabilità ed evitare il rischio di una condanna morale, se non addirittura della pena capitale. A conti fatti, per il contadino è più conveniente fronteggiare le avversità con i propri mezzi, adoperando le proprie braccia e quelle dei propri figli per difendersi e approfittando delle debolezze altrui per appropriarsi dei loro beni, preferendo esporsi al rischio di essere picchiato o ucciso, piuttosto che implorare l’aiuto del re o del sacerdote.
Il farsi giustizia da sé espone le famiglie ad uno stato di violenza endemica e di insicurezza che, alla lunga, risulta insostenibile. Nasce da ciò l’esigenza di un arbitrato, che, di norma, è affidato al capo o allo sciamano. Quando ciò avviene, le famiglie sanno che, anziché provvedere da sé a riparare il torto subito, possono denunciare i malviventi all’autorità giudicante, che di solito è un sacerdote, per ottenere giustizia. I Sumeri preferiscono una giustizia che sia amministrata secondo regola scritte, a garanzia di una sua indipendenza da arbitrî personali o capricci del signore. Le pene prevedono multe, mutilazioni, schiavitù, esilio e morte, ma non la prigione.
Anche se il l’istituzione di una figura sacerdotale che giudica secondo norme scritte non sempre funziona a dovere, tuttavia essa contribuisce a superare definitivamente la cultura di villaggio e a consolidare la struttura dello Stato. Con l’aumentare della complessità e dell’organizzazione sociale, aumenta anche la ricchezza prodotta, e, viceversa, l’aumento della ricchezza prodotta determina una maggiore divisione del lavoro e l’affermazione di nuove figure di funzionari. In questa nuova società stratificata c’è una minoranza della popolazione che non produce il cibo di cui ha bisogno, ma lo riceve da altri, insieme ad altri vantaggi e privilegi. Re, funzionari, sacerdoti e soldati si occupano di questioni amministrative, della mediazione con la divinità e della difesa, ricevendo in cambio uno status sociale superiore. Nasce la suddivisione della società in classi.
L’agricoltura è il primo motore dell’economia, seguita dalla guerra, dall’artigianato e dal commercio. La terra non è proprietà del singolo, ma della famiglia, a dimostrazione della prevalenza di una logica di gruppo su una di tipo individualistico, che ancora non è concepita. Le materie prime scarseggiano e devono perciò essere importate per essere lavorate e utilizzate. I Sumeri sono abili artigiani e conoscono bene oro, argento, rame, stagno e piombo, oltre alla ceramica, alla pietra e al legno. Il loro livello economico complessivo è di tutto rispetto, anche se si ignora l’uso della moneta. Il valore di ogni merce è riferita ad un certo peso di orzo, grano, rame o argento. I mercanti affrontano viaggi lunghi e pericolosi, ma sono ripagati da lauti guadagni, anche se la loro attività è fatto oggetto di discredito: “il viaggiatore da paesi lontani è un perenne bugiardo!” (da CHIERICI 1980: 154). Le merci vengono trasportate a dorso d’asino o con barche lungo i fiumi, più raramente con carri trainati da buoi. Il cammello è noto, ma non ancora adoperato e manca una vera a propria rete viaria.
Più una città è ricca e più essa diventa oggetto di desiderio e bramosia: i possibili nemici aumentano e spesso il re è chiamato ad approntare un sistema di difesa efficiente e polivalente, che va dalla costruzione di fortificazioni all’allestimento di un esercito, dalla costituzione di crescenti riserve idrico-alimentari alla ricerca di alleanze, dalla scelta di collaboratori fidati all’istituzione di un sistema di pattugliamento del territorio. Un re deve occuparsi di tutto ciò e deve farlo bene se vuole sopravvivere. Ma le sue qualità non bastano: senza un briciolo di fortuna anche il re più capace può finire in rovina. È sufficiente una malattia, un’epidemia, un temporale, un terremoto o un qualsiasi altro imponderabile imprevisto per mandare all’aria il sistema difensivo e cadere vittima di un nemico più fortunato. Un re saggio perciò non tralascerà di cattivarsi i favori della divinità e lo potrà fare in molti modi, per esempio, offrendo sacrifici, elargendo doni, chiedendo il parere di speciali personaggi, che si ritiene capaci di interpretare i più sottili segni della volontà divina, i cosiddetti divinatori, e, soprattutto, interpellare i sacerdoti e avvalersi della loro opera e del loro appoggio.
Con la necessaria fortuna o, se si preferisce, con il fondamentale aiuto degli dèi, un re può tenere a bada i suoi nemici per un tempo indefinito e realizzare condizioni di sicurezza tali da consentire un progressivo aumento della ricchezza prodotta, cui si accompagna un incremento demografico e una sensazione di maggior potenza e di superiorità, tale da indurre un re ad una politica espansionistica. Si diffondono così le guerre e, da questo momento, le città devono guardarsi l’una dall’altra, mentre l’attività dei sovrani è quasi del tutto assorbita nella funzione militare e in quella diplomatica: lo scopo ultimo è quello di apparire tanto forte da essere temuto e tanto inserito in una rete di alleanze da risultare pressoché invincibile. La storia insegnerà che il diavolo fa le pentole ma non i coperchi e che le cose non sempre vanno come si vorrebbe, ma questo è tutto un altro discorso. Insieme alle guerre iniziano le conquiste e, conseguentemente, si afferma la pratica della spartizione delle terre sottratte ai nemici vinti, che sono spesso tenuti in schiavitù e costretti a prestare il loro lavoro a beneficio dei vincitori.
È così che nasce la proprietà privata, della terra e delle persone. Lo schiavo viene considerato come un animale e, come tale, è valutato e trattato. Ai tempi di Hammurabi il suo valore commerciale è all’incirca quello di un asino. Lo schiavo può essere venduto, scambiato, dato in pegno o in deposito, e via dicendo, ma può anche riscattare la sua libertà pagando una certa somma al suo padrone. Lo schiavo, dunque, non è del tutto privo di diritti. Egli, per esempio, può svolgere attività commerciali e anche sposarsi con una persona libera (in questo caso i figli nascono liberi). Il servizio militare è ritenuto un primario dovere del cittadino, che sa di combattere per il proprio dio, ma non solo: il dovere è ricompensato dallo Stato con l’assegnazione di un pezzo di terra, che può essere data in affitto o trasmessa in eredità ai figli. Nel complesso, il soldato si considera un privilegiato e ciò spiega la sua fedeltà allo Stato e la pressoché totale assenza di rivolte e ammutinamenti.
In una società divenuta più numerosa e complessa aumenta il contenzioso e la domanda di giustizia, proprio mentre il re è completamente assorbito dall’attività militare e dalla politica internazionale. Nasce così l’esigenza di delegare l’amministrazione della giustizia, che viene affidata a funzionari appositamente scelti dal sovrano per lo scopo. Il re si fa garante del loro operato e si riserva una funzione di ultima istanza, conservando, in tal modo, almeno in teoria, la funzione di giudice supremo. Ormai il grado di complessità è tale da far avvertite l’esigenza di disporre di un sistema di scrittura, tale da consentire al re e al sacerdote di tenere un registro di censimento dei sudditi e di contabilità dei tributi versati e da versare. A questa delicata mansione provvedono gli scribi, la cui funzione è da paragonare ad un ministro dell’economia: sono loro che presiedono al bilancio della città e a tutto ciò che esso consegue. La loro responsabilità è grande e senza il loro prezioso apporto un re non potrebbe impegnarsi in una proficua azione di governo.
Ecco come si giunge, per passaggi graduali e progressivi, alla costituzione dello Stato politico, che è caratterizzato da una società stratificata in forma piramidale, al cui apice osserviamo la figura del re e alla cui base c’è la massa dei contadini e degli schiavi, mentre nel mezzo si collocano i funzionari e gli ufficiali dell’esercito dallo stesso re nominati con mansioni specifiche. Il re esercita un potere sovrano, militare, economico e giuridico, ed è, di fatto, un monarca assoluto. L’unica autorità indipendente dal re è quella incarnata dalla divinità. Nessun sovrano può fare a meno dei favori divini, che, almeno in parte, passano attraverso la figura sacerdotale ed i suoi specifici uffici, e, per quanto il re voglia proclamarsi rappresentante del dio, tuttavia il sacerdote può, in talune occasioni, rivelarsi il suo più temibile competitore, colui che può screditarlo agli occhi della gente e, facendo credere che il dio gli ha voltato le spalle, creare le condizioni per decretare un avvicendamento sul trono.
Per tutta una serie di ragioni, su cui non ci soffermiamo, uno stato di guerra continuo è alla lunga insostenibile, ed è per questo che, immancabilmente, ad ogni guerra segue un periodo di pace, del quale i sovrani approfittano per tessere le loro trame (da cui prenderanno origine altre guerre), ma anche avviare iniziative atte a favorire i commerci e gli scambi culturali fra popoli diversi e lontani. Lo scopo dello scambio è, essenzialmente, quello di procurarsi le materie prime di cui si è carenti (e che possono utilmente impiegate per incrementare la ricchezza prodotta, per esempio, attraverso la fabbricazione di strumenti di lavoro agricolo sempre più efficienti, o per potenziare l’esercito con la costruzione di nuove e più temibili armi), oppure di importare cultura, sotto forma di nuova tecnologia, o, infine, di acquistare semplicemente dei manufatti finiti e raffinati, allo scopo di impreziosire le dimore dei ricchi signori e le loro persone.
I re più abili e fortunati, specie quelli che riescono a conquistare il potere venendo dal nulla, sentono più forte la motivazione a dimostrare di essere veramente i migliori e tendono ad impegnarsi in una qualche impresa memorabile, come quella di costruire un grandioso monumento funerario o un sontuoso tempio, o emanare un codice legislativo (possibilmente inciso su pietra dura, a futura memoria), o incoraggiare la celebrazione delle proprie gesta, insieme alla creazione di leggende sulle proprie origini divine, oppure, più semplicemente, ostentano uno sfarzo mai visto prima, a prova inequivocabile della loro grandezza. Questi re, ben presto emulati dai loro ricchi funzionari, spendono parte del proprio smisurato patrimonio per circondarsi di artisti, che realizzano opere più fascinose che utili, il cui scopo principale è quello di stupire e di mostrare a tutti la magnificenza del committente.
Sotto il loro regno trovano spazio gli spiriti più liberi e creativi, in ogni campo della tecnica e dello scibile. Così qualche vasaio comincia a specializzarsi nella fabbricazione di vasi di pregevole fattura, dalle forme originali e impreziositi da colorazioni, decorazioni e disegni, e lo stesso vale per il fabbro, il conciatore, il falegname, il tessitore e l’ingegnere, che si cimentano in opere sensazionali. In questa temperie culturale nascono nuove figure di lavoratori, come quella del paggio, del servitore, del danzatore, del cantante, del musicista, dello stalliere, della sacerdotessa, della prostituta di rango, del divinatore, del vate, del glittico, dell’orafo, e via dicendo, che hanno in comune il fatto di essere impegnati in attività sempre più specializzate e sempre più lontane dalla mera sussistenza.
Da questo mondo, che è il mondo della città e della campagna circostante, si distinguono le popolazioni nomadi, che vivono in luoghi poco ospitali e non hanno fissa dimora. Su di loro il re non ha alcun potere, perché è molto difficile per un esercito avere ragione di un nemico capace di dileguarsi nel nulla nello spazio di poche ore, magari per ricomparire altrettanto rapidamente quando meno te lo aspetti. E poi, che senso avrebbe accanirsi contro gente, che non possiede nulla all’infuori dei loro armenti e la cui stessa vita è considerata priva di valore? I nomadi sono liberi, imprevedibili e inafferrabili. Quando la siccità impoverisce i pascoli, ai nomadi non resta altro che saccheggiare le campagne. Sono una spina nel fianco di ogni regno, una vera e propria calamità naturale da sopportare con rassegnazione, come la siccità e l’alluvione. In particolari momenti, tuttavia, avverrà, come vedremo, che un certo numero di tribù nomadi si uniranno sotto un capo comune e riusciranno a conquistare città e a rovesciare regni e imperi.
Tutto questo produce, ed è prodotto, da quella che è passata alla storia come civiltà mesopotamica, una sorta di grande palcoscenico, dove si muovono molte e variegate figure di uomini, alcuni dei quali veramente straordinari e capaci di cambiare il corso degli eventi e di lasciare un segno duraturo nel tempo. La storia di Sumer prende il via dalla necessità di una collaborazione intertribale per costruire efficienti impianti di irrigazione nelle campagne, il che induce più tribù ad unirsi, fino a fondare numerose città-stato, fra cui ricordiamo Uruk, Ur, Kish, Lagash, Nippur, Adab, Larsa, Sippur e Umma. Ciascuna di esse occupa un’area di circa 3-6 Kmq, come Atene ai tempi di Temistocle, e controlla un territorio di circa mille Kmq.
Ogni città ha un suo dio tutelare e i loro destini sono interdipendenti, nel senso che un dio che perde la sua città è debole e scompare dalla scena e, viceversa, una città vincente testimonia la potenza e la vitalità del suo dio tutelare (UHLIG 1981: 26-32). È il dio tutelare a scegliere il re della propria città, il cui compito è di obbedire ciecamente al volere divino, cioè assicurare un futuro brillante alla città. La volontà divina può essere colta attraverso i sogni, gli oracoli, il movimento degli astri, dei venti e delle acque, il volo degli uccelli, e molti altri segni, che i sacerdoti non cessano di osservare. Se qualcosa va storto, la responsabilità è del re, che non ha saputo ubbidire, del sacerdote, che non ha saputo cogliere i segni, e dello stesso dio, che si è lasciato sovrastare da un altro dio. L’inevitabile conseguenza è l’eclissi della città e del suo dio.
Nei primi mille anni, fra le città prevalgono condizioni di relativa pace, ma poi, con l’incremento demografico, aumentano anche le occasioni di tensione, finché, intorno a 4500 anni fa, cominciano le grandi ostilità e le guerre. Da questo momento le città si cingono di mura a scopo difensivo e diventano fortezze. A differenza dell’Egitto, dove prevale la cultura dell’unità nazionale, in Mesopotamia le città-stato non intendono rinunciare facilmente alla loro autonomia e oppongono resistenza ai ripetuti tentativi di creare un grande impero. Di tanto in tanto un re riesce ad estendere la sua autorità sulle altre città meritandosi il titolo di “Re di Sumer” o altri appellativi altisonanti, con i quali verrà ricordato nelle iscrizioni e nei documenti ufficiali.
Col diffondersi della guerra si affermano le prime figure di grandi condottieri, come Eannatum, re di Lagash, intorno al 2500, che combatte con successo contro Uruk, Umma, Ur ed Elam. Nello stesso tempo, si vanno diffondendo varie forme di ingiustizie sociali: privilegi per i più forti, vessazioni per i più deboli. Particolarmente deplorevole appare agli occhi della gente l’oppressione nei confronti di orfani e vedove, a favore dei quali si pronuncia qualche sovrano desideroso di cattivarsi le simpatie del popolo. Tale il caso di Urukagina, re di Lagash (2385-70), il quale si distingue come riformatore sociale.
Il primo grande Re di Sumer è Lugalzagesi, re di Uruk, che, intorno al 2375, riesce ad unificare politicamente la regione del Tigri e dell’Eufrate . In questo periodo, i sumeri concepiscono il mondo come diviso in quattro parti: Nord, Sud, Est, Ovest (a nord e sud c’era il mare, a est l’Elam, a ovest la Siria-Palestina). Naturalmente al centro del mondo c’è la Mesopotamia, la terra fra i due fiumi, e al centro della Mesopotamia c’è Uruk, una sorta di ombelico del mondo, da cui provengono i potenti clan che si insediano nei territori conquistati, dove fondano altri centri urbani sulla falsariga della città madre. Inizialmente sottomessi a Uruk, col tempo questi centri diverranno abbastanza potenti da competere con essa e ingaggiare guerre per ottenere prima l’indipendenza e poi la supremazia.
Non appena l’impero di Lugalzagesi mostra i primi evidenti segni di debolezza, ecco che sorge qualcuno in grado di approfittarne. È Sargon il Grande (2350), un trovatello di provenienza araba, cresciuto alla corte della città di Kish, che fonderà la dinastia degli Accadi e si farà chiamare “re di tutto” (PETTINATO 1994a: 263). In un’antica iscrizione si legge: “Io sono Sargon, re forte, re di Akkad. Mia madre era una sacerdotessa; mio padre non lo conosco; era uno di quelli che abitano le montagne”. Se questo è vero, significa che Sargon non è di sangue reale. Chi realmente fosse Sargon nessuno lo sa, e quel poco che si sa è intriso di leggenda. Si dice che sia un figlio illegittimo, che sia stato deposto in un cesto dalla madre e affidato alle acque del fiume, infine raccolto dal giardiniere del re di Kish e portato nel palazzo, dove viene allevato.
Fuor di leggenda, possiamo immaginare Sargon come un piccolo capoclan, che vive in un’epoca di turbolenza politica e sociale, nella quale i grandi signori delle potenti città-stato si fanno guerra fra loro, mentre, a loro volta, sono minacciati da altrettanto potenti popolazioni nomadi, che non solo razziano il territorio, ma costituiscono anche un vero e proprio elemento destabilizzante. Probabilmente, dopo essere entrato al servizio del re di Kish, Sargon riesce a sfruttare la divisione interna della città e il malcontento popolare per mettere a segno un colpo di Stato e assumere il nome di Sargon, che significa “re legittimo”. Non è per caso che il nuovo re vuole dare risalto alla sua legittimità. Una delle principali cause d’instabilità politica è, infatti, il mancato riconoscimento di un sovrano da parte degli altri aspiranti al potere (come avremo modo di vedere, questo problema attraverserà verticalmente l’intero corso della storia). A maggior ragione, questo principio deve valere per un usurpatore come Sargon. Questa preoccupazione di farsi legittimare prova l’acume politico di Sargon e dimostra che egli è consapevole che “la propaganda del vincitore è almeno altrettanto importante che le sue armi” (CANFORA 2006: 84).
La prima preoccupazione del nuovo re è, dunque, quella di legittimare il suo ruolo e, a tale scopo, egli certamente incoraggia le leggende che vanno circolando sul proprio conto, le quali, in fondo, dimostrano la discendenza divina del sovrano e il suo diritto a regnare e a fondare una nuova dinastia. Ma Sargon è innanzitutto un uomo d’azione e sa che nessuna legittimazione potrebbe conferire stabilità al suo potere se non fosse accompagnata dalla forza militare. Egli si impegna, dunque, in azioni di conquista e, grazie alle sue eccellenti qualità di condottiero e di opportunista, riesce a creare un impero ancora più grande di quello di Lugalzagesi, la cui capitale, la città di Accad, è fatta costruire ex novo dallo stesso sovrano (2350). I vincitori imparano l’arte della scrittura, ma la adattano al loro idioma, creando così una lingua nuova, che avrà fortuna, riuscendo a sopravvivere per quasi due mila anni.
I successori di Sargon si sentono così sicuri della propria legittimazione da farsi divinizzare mentre sono in vita. È Naramsin, nipote di Sargon e conquistatore di Ebla, il primo re a compiere questo passo (2250), ma, evidentemente, questa mossa non basta ad assicurare lunga vita alla sua dinastia. Dopo Naramsin, infatti, ha inizio una fase di declino, che in buona parte è legata all’ascesa di nuovi aspiranti al potere, che accendono conflitti interni e indeboliscono l’impero, dando modo all’orda dei rozzi montanari Gutei di farsi avanti e abbattere la dinastia di Accad (2200). Devono trascorrere una cinquantina d’anni prima che essi vengano sterminati dal re di Uruk, Utukhengal, che avrebbe ricevuto tale ordine dal dio Enlil.
Della cacciata dei Gutei si avvantaggia Urnammu (2112-2095), fondatore della III dinastia di Ur, riescono ad imporre la loro egemonia sulla Mesopotamia meridionale, dando inizio ad una breve rinascita di Sumer. L’opera espansionistica di Urnammu viene proseguita dal figlio Shulgi (2094-2047), il quale, come già Sargon e Naramsin, comprende che non è sufficiente affidarsi alle armi e cerca di superarli. Egli non si accontenta di curare la propria legittimazione, che anzi provvede a rafforzare, facendo divinizzare sia la propria persona, che il proprio ruolo, ad imitazione del faraone, ma tenta anche la via del diritto. Se le popolazioni a me sottomesse, pensa, sanno che possono su una legge scritta uguale per tutti, certamente preferiranno vivere sotto quella legge, piuttosto che muoversi continuamente guerra fra loro, col rischio della vita oggi e senza certezze per il futuro. Shulgi non si limita a emanare il primo codice di leggi che si conosca, ma crea anche un esercito regolare, organizza un enorme e ordinato apparato burocratico e fiscale e unifica il sistema amministrativo in tutto il suo impero, che fa suddividere in province, ciascuna delle quali viene affidata ad un governatore e presidiata da un corpo militare. Più di così proprio non può fare, ma Sumer non è come l’Egitto: qui la pace interna non basta a rendere duraturo un sistema politico, perché i nemici esterni sono forti e minacciosi.

Il Diritto sumero
A fronte di un sempre più frequente ricorso alla guerra, in realtà i “sumeri erano fondamentalmente pacifici e amavano la vita. Nella loro letteratura si parla poco di guerre e di battaglie e i loro re si vantano più volentieri delle opere civili e religiose che hanno costruito che non delle imprese militari” (CHIERICI 1980: 43). I Sumeri sono i primi a concepire un diritto civile formalmente codificato.
Che cos’è il diritto? “Sostanzialmente il diritto consiste in un insieme particolarmente definito di norme sociali che sono mantenute in vigore attraverso la applicazione di sanzioni «legali»” (HOEBEL 1973: 26). Parliamo propriamente di diritto solo in presenza di leggi scritte e della forza necessaria per farle rispettare, anche se esistono forme di diritto primitive, ma non per questo meno funzionali.
Quando nasce il diritto? Il primo esempio a noi noto di diritto propriamente detto è quello che si realizza sotto il regno di Shulgi. Prima esisteva una forma di diritto non scritto, che corrispondeva, in ultima analisi, alle aspettative del gruppo familiare-clanico, o all’autorità morale di un leader riconosciuto e stimato, o alla volontà del più forte.
Perché si afferma il diritto? Il diritto si afferma perché svolge determinate funzioni. “Il compito fondamentale del diritto è quello di definire innanzitutto le relazioni personali […]. Esso stabilisce le aspettative di un individuo nei confronti di un altro individuo, di un gruppo nei confronti di un altro gruppo, cosicché ognuno conosce il nucleo e le limitazioni dei propri diritti nei riguardi degli altri, dei propri doveri, delle proprie facoltà e poteri” (HOEBEL 1973: 389-90). Sotto questo aspetto, il diritto svolge la stessa funzione delle lotte territoriali presso gli animali, ovvero stabilisce l’ordine di accesso alle risorse, senza che si debba venire ogni volta alle mani. Una volta stabiliti i rapporti di forza, gli animali si comportano in modo ordinato e rispettano le gerarchie. Per gli umani non è molto diverso: le norme del diritto e svolgono la stessa funzione delle lotte territoriali, che è quella di evitare il ricorso continuo alla forza.

I figli e successori di Shulgi, Amarsin (2046-2038) e Shusin (2037-2029), che pure vorrebbero espandersi, devono badare soprattutto a difendersi dalla penetrazione degli Amorrei e dalla minaccia degli Elamiti e l’ultimo re di Ur, Ibbisin (2028-2004), nonostante faccia di tutto per evitare il disastro, nulla può contro il dilagare di queste orde fameliche, che finiscono per tavolgerlo. L’impero sumero si frantuma in molti Stati epigoni (Isin, Larsa, Eshnunna, Assiria, Babilonia, Mari, Aleppo, e altri ancora), che verranno unificati da Hammurabi oltre due secoli dopo. Saranno due secoli di divisione, di lotta e di caos politico. Con Ibbisin si conclude la storia della civiltà sumerica, che sarà presto dimenticata. Saranno gli scavi archeologici, effettuati nel XX secolo, tra la prima e la seconda guerra mondiale, a riportarla alla memoria. Ma qual è il livello culturale espresso da questa antica civiltà?
Il cuore della città sumerica è il tempio, detto Ziqqurat, dalla caratteristica forma architettonica a piramide tronca a gradini , il quale non ha soltanto un significato religioso, ma svolge anche funzioni economiche e amministrative. Il tempio è innanzitutto la casa del dio e svolge una funzione religiosa, che è quella di soddisfare l’ormai radicato bisogno di rendere il dovuto omaggio alla divinità tutelare. Grazie alla sua imponenza e alla sua ubicazione in zone strategiche, il tempio costituisce anche un ottimo punto di osservazione del movimento delle acque, il che rende possibile il miglioramento del sistema di canalizzazione, col duplice vantaggio di sfruttare il prezioso liquido senza lasciarsene travolgere. Dall’alto del tempio non si osservano solo le acque, ma anche il cielo, gli astri, il volo degli uccelli, il soffiare dei venti e altri fenomeni, che vengono utilizzati anche come presagi, o come indizi per la divinazione.
Al dio tutto appartiene, comprese le terre, che vengono affidate alla cura di contadini, i quali, a loro volta, hanno l’obbligo di versare una parte dei loro prodotti, che vengono ammassati e ordinati in appositi magazzini, annessi al tempio. Dalla necessità di controllare, ordinare e amministrare i versamenti dei contadini, deriva l’esigenza di istituire un apparato burocratico, a capo del quale c’è il sacerdote, che è il vero capo e padrone di tutto. A poco a poco il personale del tempio impara a marchiare i singoli prodotti che vi affluiscono, a sigillarli e a catalogarli, ad accompagnare i prodotti di scambio con alcune indicazioni essenziali, a registrare atti di compra-vendita, prestiti, o qualsiasi altro atto pubblico o privato.
È così che viene inventata, in modo autonomo, probabilmente nel tempio di Uruk, intorno a 5000 anni fa, quella scrittura, che oggi viene chiamata cuneiforme . I reperti archeologici inducono a ritenere che la scrittura sia iniziata come pittogramma, ossia come riproduzione schematica dell’oggetto corrispondente, per divenire, in un secondo tempo, sempre più astratta (scrittura ideografica e simbolica). Lo stesso vale per i numeri: inizialmente (12-15 mila anni fa) si usa la corrispondenza univoca (tante tacche su un osso o un legno quanti oggetti da rappresentare); successivamente si cominciano ad usare simboli diversi per numeri (o quantità) diversi (PETTINATO 1994a: 44-6). Attraverso la scrittura, i sacerdoti e i funzionari non solo amministrano il surplus della comunità cittadina, ma possono anche segnare i nomi delle cose.
A poco a poco, il “nome” diviene così importante da costituire, nell’immaginario sumerico, la stessa essenza della cosa. I Sumeri credono che ogni cosa, per esistere, debba avere un nome e che la conoscenza e l’uso di quel nome equivalga ad esercitare un qualche potere sulle cose stesse, ed ecco perché i più antichi documenti sumerici, di natura non contabile, sono elenchi di nomi. Pronunciando e scrivendo il nome di oggetti, di piante, di animali, di persone e di divinità, i Sumeri hanno l’impressione di controllare la realtà, in gran parte misteriosa, che li circonda. Col passare del tempo, all’interno dei templi vanno prendendo forma i primi racconti basati sul ricordo di eventi più o meno remoti, risultandone costruzioni piuttosto libere e fantasiose, ma pur sempre in grado di dare un senso al presente e di costituire l’identità culturale di una città o di una intera regione e che, un giorni, dai Greci, verranno chiamati miti.
Composto di “parole”, già di per sé considerate magiche, anche il mito è accreditato di poteri straordinari. Di fatto, esso svolge una funzione simile a quella svolta dall’idea di dio, ma, mentre questa è vista come affare esclusivo del sacerdote o di pochi privilegiati, il mito appartiene a tutti, è di dominio pubblico. Il racconto mitico non nasce in un giorno, né viene a costituirsi nel sogno o per illuminazione, come i messaggi divini, ma prende forma nell’immaginario collettivo, a partire da esperienze comuni e da eventi di portata pubblica realmente accaduti e ritenuti tanto rilevanti da meritare di essere ricordati e spiegati, come la fondazione di una città, un’alleanza, una guerra, una lunga carestia o una grave epidemia. Il ricordo di eventi memorabili, che si susseguono nel corso degli anni, viene trasmesso di generazione in generazione e in forma essenzialmente orale, con l’aggiunta di libere interpretazioni e senza curarsi della sua fedele corrispondenza ai fatti realmente accaduti.
Col trascorrere del tempo, il racconto finisce col perdere ogni verosimiglianza con gli eventi che lo hanno generato e resta il puro e semplice mito, ossia un tentativo libero di spiegazione della realtà. Senza esserne necessariamente consapevole, attraverso il racconto mitico, l’uomo svela i misteri della vita, l’origine dell’universo e degli animali, degli uomini e degli dèi, delle dinastie e delle città, dei popoli e delle tradizioni, del dolore e della morte, della natura e del destino dell’uomo. Il mito viene da lontano e si perde nella notte dei tempi, non ha un autore umano ben definito e viene considerato come esistente da sempre. Esso è accolto come una verità di fede, assoluta e indiscutibile, e periodicamente riproposto in occasione della celebrazione di certi riti, all’interno di un tempio o di un palazzo, o nell’occorrenza di certi eventi sociali di particolare importanza, come il raccolto del grano, la tosatura delle pecore, l’anniversario della fondazione della città o dell’affermazione di una dinastia. La maggioranza dei miti conservano un’importanza locale e vengono dimenticati, ma alcuni di essi vengono messi in forma scritta, all’interno di un palazzo o di tempio, e diventano imperituri.
Uno dei pochi racconti, che è potuto giungere fino a noi, è il celeberrimo poema di Gilgamesh, composto a Uruk intorno a 4500 anni fa (PETTINATO 1994a: 144). Chi è Gilgamesh? Non si sa di preciso. Forse è un personaggio reale, un re di Uruk, vissuto circa 4600 anni fa e reso famoso, al suo tempo, per essersi posto, analogamente al suo collega faraone, l’obiettivo dell’immortalità. Già subito dopo la sua morte, su di lui circolano un certo numero di aneddoti, che vengono prima raccontati in forma orale e in modo frammentario, e, successivamente, in qualche palazzo, poi raccolti e messi in forma scritta in lingua sumerica. L’opera ha successo e si diffonde in tutto il Vicino Oriente. Intorno a 3000 anni fa, essa viene tradotta in lingua assira e viene conservata nella biblioteca del palazzo di Ninive, voluta da Assurbanipal, dove è stata ritrovata a seguito degli scavi archeologici compiuti nel XIX secolo. Ecco una sintesi del racconto.

Gilgamesh è il potente e arrogante re di Uruk. Stanchi del suo strapotere, i sudditi si rivolgono agli dèi perché gli oppongano qualcuno di pari valore. Gli dèi creano allora Enkidu, un uomo di mentalità primitiva e selvaggia, che cresce in compagnia degli animali selvatici. Saputo delle prepotenze del re, Enkidu si reca in città e lo affronta, ma Gilgamesh si mostra valoroso tanto che, alla fine, Enkidu riconosce la legittimità del suo potere e i due diventano amici. Insoddisfatti della loro vita tranquilla, i nostri eroi decidono di intraprendere un viaggio alla ricerca di gloria. Strada facendo, la dea Istar si innamora di Gilgamesh, ma questo la respinge perché sa che la dea ha trasformato molti suoi amanti in animali. Irritata, Istar si rivolge ad Anu, il dio della volta celeste, chiedendogli di vendicarla. Anu manda contro i nostri eroi il gigantesco Toro del Cielo, ma essi lo uccidono. Invidiosi della loro fortuna, gli dèi decidono la morte di Enkidu, il quale, lamentando la sua fine ingloriosa, lontano dai campi di battaglia, esala l’ultimo respiro fra le braccia dell’amico, che ne piange la perdita. Sentendo incombere anche su di sé la minaccia della morte, Gilgamesh vuole scoprire il segreto dell’immortalità e si mette in viaggio alla volta di Utnapistim, l’unico uomo che sembra l’abbia ricevuta dagli dèi e che vive in un’isola agli estremi confini della terra. Lungo il cammino deve superare una serie di difficoltà, che si frappongono fra lui e Utnapistim: affronta due mostri spaventosi, che fanno la guardia al “Giardino delle Delizie”, resiste ad una locandiera, che cerca di dissuaderlo prospettandogli l’irrealizzabilità dell’impresa, e attraversa l’Oceano. Gilgamesh non si ferma davanti a nessun ostacolo, finché giunge al cospetto di Utnapistim, il quale, dichiaratosi disponibile a svelargli il segreto dell’immortalità, gli racconta come gli dèi abbiano mandato sulla terra il diluvio universale, come egli, aiutato dal dio Ea, abbia costruito un’arca e vi abbia caricato la propria famiglia e tutti gli animali salvandosi, e, infine, come, per grazia degli dèi, gli sia stato concesso di vivere per l’eternità in quella remota isola. Avendo compreso che non c’è alcun segreto da svelare e che l’immortalità è una prerogativa divina, deluso, Gilgamesh si prepara al ritorno, quando Utnapistim, tratto in compassione, vuole dargli un’estrema possibilità: se avesse raccolto una certa pianta, che si trova in fondo al mare, e l’avesse mangiata, avrebbe guadagnato l’immortalità. Ancora una volta, l’eroe affronta con successo l’impresa e, mentre fa ritorno alla sua città con l’intento di far mangiare la pianta a tutti gli uomini, essendosi fermato a bere da una sorgente e avendo deposto a terra la pianta, un serpente gliela rapisce. Così Gilgamesh ritorna a Uruk a mani vuote.


Il mito di Gilgamesh ci permette di cogliere il livello di civiltà raggiunto dai Sumeri, che appaiono in grado di riflettere sulla natura degli uomini. Dal momento che l’intelligenza, la forza, la volontà e il coraggio non bastano a fare di lui un essere immortale, all’uomo altro non resta che accettare i propri limiti e rassegnarsi al proprio destino. Tale è il senso tragico dell’opera, che presenta tratti di grande interesse, alcuni dei quali saranno poi ripresi dalla letteratura successiva, in particolare dalla Bibbia (Giardino delle Delizie, Diluvio) e dai poemi omerici (uomini-eroi, dèi antropomorfizzati, viaggio avventuroso, pianto per la morte dell’amico).
I Sumeri spiegano il mondo con argomentazioni di natura religiosa. Le loro riflessioni sulla sfera divina si sviluppano in almeno due distinte fasi: nella prima, la divinità è identificata con le manifestazioni naturali, con le quali gli uomini si trovano in quotidiano rapporto, come il vento, la pioggia, il fuoco, le nuvole e gli astri, nella seconda, che corrisponde all’età storica, le divinità acquistano un aspetto personale e antropomorfo. In entrambi i casi, c’è spazio per un indefinito numero di divinità: si conoscono circa 500 divinità sumeriche! Ma come sono queste divinità? Innanzitutto, esse hanno un inizio, perciò non sono eterne, inoltre provano gli stessi sentimenti umani, hanno desideri e passioni, ricorrono all’inganno, mangiano e bevono, si accoppiano e hanno figli. La loro vita è segnata da successi e insuccessi, come avviene per gli uomini, con l’unica differenza che gli dèi sono immortali. Oltre alle divinità antropomorfe, i Sumeri riconoscono tutta una serie di esseri che stanno a metà strada tra il divino e l’umano, siano essi eroi divinizzati, superuomini, semidei, mostri, demoni o angeli, e si può dire che ogni sumero ha almeno un dio a cui offrire preghiere e sacrifici, indossa amuleti contro le malattie, recita formule ed esegue atti di scongiuro, il tutto allo scopo di tenere lontane le potenze del male, di cui crede che l’universo sia popolato.
Secondo i Sumeri, solo un dio può fondare una città e, nel momento in cui lo fa, egli ne diviene legittimo proprietario e s’impegna a difenderla come cosa propria. Così, ad ogni città corrisponde una divinità tutelare e i loro destini (quello del dio e quello della città) sono ritenuti interdipendenti, nel senso che un dio che perde la sua città è considerato un dio debole e, viceversa, una città prospera testimonia la potenza del suo dio. Gli stessi sovrani sono ben consapevoli che “la loro designazione a re e le loro fortune politiche e militari sono dovute alla benevolenza del dio cittadino, ma soprattutto del dio Enlil, capo indiscusso del Pantheon sumerico” (PETTINATO 1994a: 303). Se l’effettivo proprietario di una città è un dio, il sacerdote-re è solo un “affittuario” (SAPORETTI 2002: 29). I Sumeri sono convinti che i protagonisti delle vicende umane sono le divinità e non concepiscono una “storia” come descrizione di fatti umani, che si possono spiegare con una logica umana. Al contrario, secondo i Sumeri, gli avvenimenti sono decretati dagli dèi e l’uomo può solo prenderne atto, senza pretendere di addentrarsi in inutili analisi e discussioni.
I Sumeri ignorano l’idea di peccato e il principio di retribuzione, perché negano la responsabilità dell’uomo. Tutto ciò che accade dipende dalla volontà degli dèi, non da quella degli uomini. Anche l’ordine sociale vigente si ritiene costituisca l’espressione della volontà del dio tutelare, e lo stesso vale per il sacerdote e il re: entrambi sono prescelti dal dio come suoi strumenti, con lo scopo di dare attuazione pratica alla sua volontà. I Sumeri credono che la creazione dell’uomo faccia parte di un piano imperscrutabile degli dèi e ritengono che l’uomo possa contribuire a realizzare quel piano attraverso l’obbedienza nei confronti dell’autorità costituita, vale a dire il re, coi suoi rappresentanti, e i propri genitori. Inoltre, pensano che, lavorando, l’uomo non solo provvede al proprio sostentamento e a quello dei funzionari, ma si assicura anche la benedizione degli dèi. Ritengono, infine, che, dopo la morte, la vita continui, seppure in una forma grigia e di scarso interesse, che può essere alleviata dalle offerte funerarie, in mancanza delle quali, i morti stessi potrebbero rendersi minacciosi. Tutti allora sono chiamati ad impegnarsi nelle opere della vita terrena e a confidare nella benevolenza del dio e della fortuna.
Il favore degli dèi è essenziale per il benessere degli uomini e si guadagna rispettando la loro volontà. Ma come è possibile leggere nella testa di un dio? Attraverso l’osservazione e l’interpretazione di ogni possibile segno divino. Dal desiderio di conoscere la volontà degli déi, si sviluppano alcune tecniche di divinazione, che si basano sull’interpretazione dei sogni, dei fenomeni naturali, dei movimenti degli astri, e altro ancora. La funzione, che prima era svolta dallo sciamano, che era un personaggio singolare e personalissimo, adesso è svolta dal divinatore, che è un anziano funzionario dello Stato e un servitore del re. E se i presagi sono funesti? Niente paura: si può sempre ricorrere ad un qualche rito di purificazione e ad altre misure idonee a scongiurare le previsioni. La divinazione rappresenta, per l’uomo mesopotamico, ciò che la scienza sarà per l’uomo moderno, e gli anziani che la praticano sono tenuti in alta considerazione e vengono regolarmente consultati in ogni occasione importante, sia dal sovrano che dalle persone comuni.
Coerentemente coi loro presupposti religiosi, i Sumeri sono degli osservatori minuziosi, analitici, scrupolosi, e ciò permette loro di acquisire importanti conoscenze sui fenomeni naturali e in campo astronomico. Mostrano invece gravi lacune sotto il profilo della sintesi, dell’astrazione, della creatività e dell’inventiva, e, sotto questo aspetto, la loro cultura rimane empirica, legata al particolare. I Sumeri non giungono mai a formulare una legge universale, nemmeno in campo matematico! La causa di ciò va ricercata ancora una volta nelle loro credenze religiose. Essi, infatti, concepiscono la scienza come un dono concesso agli uomini da questo o da quel dio e che l’uomo deve semplicemente raccogliere e trasmettere il più fedelmente possibile alle generazioni future, senza pretendere di produrlo con le proprie forze. Da questo atteggiamento mentale deriva inevitabilmente una tendenza alla conservazione e all’immobilismo.