sabato 5 settembre 2009

3. I Sumeri

Sumer è una regione prospiciente al Golfo Persico, grande come la Lombardia e disseminata di villaggi e città-stato, dove vivono mezzo milione di persone. Il clima è arido, ma è compensato dalle acque del Tigri e dell’Eufrate, che possono essere utilizzate sia a scopo di irrigazione sia per trasportare le materie prime, anche se ciò richiede un’adeguata organizzazione sociale. Non c’è legname da costruzione, né pietre, né marmo, né rame, né oro, né argento e il ferro, pur essendo noto, non è ancora usato, perché non si dispone ancora della tecnologia adeguata. Vi abbondano invece materie povere, come l’argilla e la canna. In questa terra, intorno a 5.500 anni fa, calano alcune tribù asiatiche, che riescono ad insediarvisi stabilmente, imponendosi o integrandosi con le popolazioni locali e ad organizzarsi. Sono i Sumeri, uomini laboriosi e inclini al lavoro disciplinato e collettivo, che imparano a canalizzare le acque dei fiumi, sì da renderle non solo innocue, ma anche utili per la fertilità dei campi, ad utilizzare in modo assai ingegnoso, canna e argilla per ricavarne mattoni, con cui edificare città in grado di resistere alle intemperie per migliaia di anni, a costruire supporti e stili per scrivere e amministrare lo Stato.
I Sumeri sono “i primi a inventare la città, i primi a inventare la scrittura, i primi a inventare la scuola, i primi a introdurre l’istituto regale, e così via” (PETTINATO 1994a: 385-6) e, nonostante non conoscano né il cavallo, né il cammello, la sola bestia da soma su cui possono contare essendo l’asino, possono essere indicati come i “veri promotori della civiltà umana in assoluto, la stessa civiltà che è anche la nostra, sicché è lecito considerarli, almeno in parte, nostri antenati e precursori” (PETTINATO 2003: 9-10).
Grano, orzo, lana e olio sono prodotti in quantità tale da costituire un surplus, che viene scambiato con materie prime, che a loro volta alimentano una fiorente industria di trasformazione, da cui Sumer trae ricchezza. Lo sviluppo dell’agricoltura, se da un lato consente un’economia di accumulo e migliora le condizioni di vita, dall’altro determina un incremento demografico e genera nuove esigenze, prima fra tutte quella di difendere le terre coltivate e il surplus dai numerosi malintenzionati, che possono essere individui isolati, piccole bande o intere tribù.
Da questo momento, risulta evidente che il futuro di ogni comunità dipende dal suo grado di organizzazione e dalle sue capacità di difesa. Perciò i villaggi tendono a trasformarsi in dominî, in strutture, cioè, polivalenti e adatte tanto a custodire e proteggere i beni prodotti, quanto a procurarsene a danno di altre comunità. Adesso i villaggi hanno un capo, che è l’antesignano del re, e una milizia armata, che prefigura l’esercito permanente, e, mentre la maggioranza della popolazione è occupata nella coltivazione dei campi, una piccola parte di essa si specializza nella produzione di arnesi da lavoro, armi e suppellettili, insediata all’interno del villaggio, dove può contare su un’adeguata protezione. I prodotti artigianali si aggiungono a quelli agricoli e costituiscono un unico surplus, che viene custodito in appositi luoghi fortificati e presidiate dalle guardie.
La figura del contadino, che vive lontano dal villaggio, in stretto legame con la sua terra, è quella maggiormente esposta ai pericoli, che per lo più provengono dai pastori-predoni, da quelle persone cioè che hanno deciso di vivere in autonomia e senza particolari legami, che si spostano da un luogo all’altro con le loro greggi e le loro famiglie, che si appropriano di qualunque cosa indifesa trovino nel loro cammino e, se scoperti con le mani nel sacco, non esitano ad uccidere. Il contadino si viene a trovare in una situazione paradossale: da un lato, il suo lavoro è fondamentale e irrinunciabile, dal momento che da esso dipende la sussistenza dell’intera comunità; dall’altro, esso è il più esposto ai pericoli, il più vulnerabile, il più incerto e precario, e non solo per il rischio che viene dai predoni, ma anche per il rischio che viene dalle intemperie, dalle inondazioni, dalla siccità, dal vento, dal fuoco, dai parassiti e dalle malattie.
In teoria, il contadino può contare sulla protezione del capo, le cui guardie fanno la ronda e danno la caccia alla criminalità organizzata. In pratica però, questo servizio si rivela spesso insufficiente e spesso egli deve difendersi da solo. In cambio di questo, seppur teorico, servizio, il contadino è tenuto a versare una parte del raccolto al capo, né più né meno di come avviene in Egitto nello stesso tempo. La riscossione delle imposte è inflessibile ed è vista dal contadino come una vera e propria calamità. “Il contadino temeva soprattutto due disgrazie: le cavallette e lo «scriba delle tasse»! I risultati erano identici: una parte del raccolto spariva, con la differenza che lo scriba era accompagnato da guardie armate di bastoni, che avevano il compito di convincere il contribuente recalcitrante a versare le sue tasse tirando fuori il grano che aveva nascosto!” (CHIERICI 1980: 32).
I problemi del contadino non finiscono qui, i suoi beni essendo insidiati non solo dalle avverse condizioni climatiche, ma anche da pastori, bande armate e eserciti di passaggio, che fanno razzia di tutto ciò che possono. Generalmente il contadino si trova indifeso e soccombente, e non gli resta altro che confidare nella fortuna e nella benevolenza della divinità. In teoria, qualora dovesse essere depredato di tutto, eccetto che della vita, il contadino potrebbe sperare di poter accedere al surplus del tempio, ma non è detto che il sacerdote glielo consenta. Egli, per esempio, potrebbe voler accertarsi che il contadino sia incolpevole del disastro, e sarebbe ben difficile che questi possa scagionarsi da ogni responsabilità ed evitare il rischio di una condanna morale, se non addirittura della pena capitale. A conti fatti, per il contadino è più conveniente fronteggiare le avversità con i propri mezzi, adoperando le proprie braccia e quelle dei propri figli per difendersi e approfittando delle debolezze altrui per appropriarsi dei loro beni, preferendo esporsi al rischio di essere picchiato o ucciso, piuttosto che implorare l’aiuto del re o del sacerdote.
Il farsi giustizia da sé espone le famiglie ad uno stato di violenza endemica e di insicurezza che, alla lunga, risulta insostenibile. Nasce da ciò l’esigenza di un arbitrato, che, di norma, è affidato al capo o allo sciamano. Quando ciò avviene, le famiglie sanno che, anziché provvedere da sé a riparare il torto subito, possono denunciare i malviventi all’autorità giudicante, che di solito è un sacerdote, per ottenere giustizia. I Sumeri preferiscono una giustizia che sia amministrata secondo regola scritte, a garanzia di una sua indipendenza da arbitrî personali o capricci del signore. Le pene prevedono multe, mutilazioni, schiavitù, esilio e morte, ma non la prigione.
Anche se il l’istituzione di una figura sacerdotale che giudica secondo norme scritte non sempre funziona a dovere, tuttavia essa contribuisce a superare definitivamente la cultura di villaggio e a consolidare la struttura dello Stato. Con l’aumentare della complessità e dell’organizzazione sociale, aumenta anche la ricchezza prodotta, e, viceversa, l’aumento della ricchezza prodotta determina una maggiore divisione del lavoro e l’affermazione di nuove figure di funzionari. In questa nuova società stratificata c’è una minoranza della popolazione che non produce il cibo di cui ha bisogno, ma lo riceve da altri, insieme ad altri vantaggi e privilegi. Re, funzionari, sacerdoti e soldati si occupano di questioni amministrative, della mediazione con la divinità e della difesa, ricevendo in cambio uno status sociale superiore. Nasce la suddivisione della società in classi.
L’agricoltura è il primo motore dell’economia, seguita dalla guerra, dall’artigianato e dal commercio. La terra non è proprietà del singolo, ma della famiglia, a dimostrazione della prevalenza di una logica di gruppo su una di tipo individualistico, che ancora non è concepita. Le materie prime scarseggiano e devono perciò essere importate per essere lavorate e utilizzate. I Sumeri sono abili artigiani e conoscono bene oro, argento, rame, stagno e piombo, oltre alla ceramica, alla pietra e al legno. Il loro livello economico complessivo è di tutto rispetto, anche se si ignora l’uso della moneta. Il valore di ogni merce è riferita ad un certo peso di orzo, grano, rame o argento. I mercanti affrontano viaggi lunghi e pericolosi, ma sono ripagati da lauti guadagni, anche se la loro attività è fatto oggetto di discredito: “il viaggiatore da paesi lontani è un perenne bugiardo!” (da CHIERICI 1980: 154). Le merci vengono trasportate a dorso d’asino o con barche lungo i fiumi, più raramente con carri trainati da buoi. Il cammello è noto, ma non ancora adoperato e manca una vera a propria rete viaria.
Più una città è ricca e più essa diventa oggetto di desiderio e bramosia: i possibili nemici aumentano e spesso il re è chiamato ad approntare un sistema di difesa efficiente e polivalente, che va dalla costruzione di fortificazioni all’allestimento di un esercito, dalla costituzione di crescenti riserve idrico-alimentari alla ricerca di alleanze, dalla scelta di collaboratori fidati all’istituzione di un sistema di pattugliamento del territorio. Un re deve occuparsi di tutto ciò e deve farlo bene se vuole sopravvivere. Ma le sue qualità non bastano: senza un briciolo di fortuna anche il re più capace può finire in rovina. È sufficiente una malattia, un’epidemia, un temporale, un terremoto o un qualsiasi altro imponderabile imprevisto per mandare all’aria il sistema difensivo e cadere vittima di un nemico più fortunato. Un re saggio perciò non tralascerà di cattivarsi i favori della divinità e lo potrà fare in molti modi, per esempio, offrendo sacrifici, elargendo doni, chiedendo il parere di speciali personaggi, che si ritiene capaci di interpretare i più sottili segni della volontà divina, i cosiddetti divinatori, e, soprattutto, interpellare i sacerdoti e avvalersi della loro opera e del loro appoggio.
Con la necessaria fortuna o, se si preferisce, con il fondamentale aiuto degli dèi, un re può tenere a bada i suoi nemici per un tempo indefinito e realizzare condizioni di sicurezza tali da consentire un progressivo aumento della ricchezza prodotta, cui si accompagna un incremento demografico e una sensazione di maggior potenza e di superiorità, tale da indurre un re ad una politica espansionistica. Si diffondono così le guerre e, da questo momento, le città devono guardarsi l’una dall’altra, mentre l’attività dei sovrani è quasi del tutto assorbita nella funzione militare e in quella diplomatica: lo scopo ultimo è quello di apparire tanto forte da essere temuto e tanto inserito in una rete di alleanze da risultare pressoché invincibile. La storia insegnerà che il diavolo fa le pentole ma non i coperchi e che le cose non sempre vanno come si vorrebbe, ma questo è tutto un altro discorso. Insieme alle guerre iniziano le conquiste e, conseguentemente, si afferma la pratica della spartizione delle terre sottratte ai nemici vinti, che sono spesso tenuti in schiavitù e costretti a prestare il loro lavoro a beneficio dei vincitori.
È così che nasce la proprietà privata, della terra e delle persone. Lo schiavo viene considerato come un animale e, come tale, è valutato e trattato. Ai tempi di Hammurabi il suo valore commerciale è all’incirca quello di un asino. Lo schiavo può essere venduto, scambiato, dato in pegno o in deposito, e via dicendo, ma può anche riscattare la sua libertà pagando una certa somma al suo padrone. Lo schiavo, dunque, non è del tutto privo di diritti. Egli, per esempio, può svolgere attività commerciali e anche sposarsi con una persona libera (in questo caso i figli nascono liberi). Il servizio militare è ritenuto un primario dovere del cittadino, che sa di combattere per il proprio dio, ma non solo: il dovere è ricompensato dallo Stato con l’assegnazione di un pezzo di terra, che può essere data in affitto o trasmessa in eredità ai figli. Nel complesso, il soldato si considera un privilegiato e ciò spiega la sua fedeltà allo Stato e la pressoché totale assenza di rivolte e ammutinamenti.
In una società divenuta più numerosa e complessa aumenta il contenzioso e la domanda di giustizia, proprio mentre il re è completamente assorbito dall’attività militare e dalla politica internazionale. Nasce così l’esigenza di delegare l’amministrazione della giustizia, che viene affidata a funzionari appositamente scelti dal sovrano per lo scopo. Il re si fa garante del loro operato e si riserva una funzione di ultima istanza, conservando, in tal modo, almeno in teoria, la funzione di giudice supremo. Ormai il grado di complessità è tale da far avvertite l’esigenza di disporre di un sistema di scrittura, tale da consentire al re e al sacerdote di tenere un registro di censimento dei sudditi e di contabilità dei tributi versati e da versare. A questa delicata mansione provvedono gli scribi, la cui funzione è da paragonare ad un ministro dell’economia: sono loro che presiedono al bilancio della città e a tutto ciò che esso consegue. La loro responsabilità è grande e senza il loro prezioso apporto un re non potrebbe impegnarsi in una proficua azione di governo.
Ecco come si giunge, per passaggi graduali e progressivi, alla costituzione dello Stato politico, che è caratterizzato da una società stratificata in forma piramidale, al cui apice osserviamo la figura del re e alla cui base c’è la massa dei contadini e degli schiavi, mentre nel mezzo si collocano i funzionari e gli ufficiali dell’esercito dallo stesso re nominati con mansioni specifiche. Il re esercita un potere sovrano, militare, economico e giuridico, ed è, di fatto, un monarca assoluto. L’unica autorità indipendente dal re è quella incarnata dalla divinità. Nessun sovrano può fare a meno dei favori divini, che, almeno in parte, passano attraverso la figura sacerdotale ed i suoi specifici uffici, e, per quanto il re voglia proclamarsi rappresentante del dio, tuttavia il sacerdote può, in talune occasioni, rivelarsi il suo più temibile competitore, colui che può screditarlo agli occhi della gente e, facendo credere che il dio gli ha voltato le spalle, creare le condizioni per decretare un avvicendamento sul trono.
Per tutta una serie di ragioni, su cui non ci soffermiamo, uno stato di guerra continuo è alla lunga insostenibile, ed è per questo che, immancabilmente, ad ogni guerra segue un periodo di pace, del quale i sovrani approfittano per tessere le loro trame (da cui prenderanno origine altre guerre), ma anche avviare iniziative atte a favorire i commerci e gli scambi culturali fra popoli diversi e lontani. Lo scopo dello scambio è, essenzialmente, quello di procurarsi le materie prime di cui si è carenti (e che possono utilmente impiegate per incrementare la ricchezza prodotta, per esempio, attraverso la fabbricazione di strumenti di lavoro agricolo sempre più efficienti, o per potenziare l’esercito con la costruzione di nuove e più temibili armi), oppure di importare cultura, sotto forma di nuova tecnologia, o, infine, di acquistare semplicemente dei manufatti finiti e raffinati, allo scopo di impreziosire le dimore dei ricchi signori e le loro persone.
I re più abili e fortunati, specie quelli che riescono a conquistare il potere venendo dal nulla, sentono più forte la motivazione a dimostrare di essere veramente i migliori e tendono ad impegnarsi in una qualche impresa memorabile, come quella di costruire un grandioso monumento funerario o un sontuoso tempio, o emanare un codice legislativo (possibilmente inciso su pietra dura, a futura memoria), o incoraggiare la celebrazione delle proprie gesta, insieme alla creazione di leggende sulle proprie origini divine, oppure, più semplicemente, ostentano uno sfarzo mai visto prima, a prova inequivocabile della loro grandezza. Questi re, ben presto emulati dai loro ricchi funzionari, spendono parte del proprio smisurato patrimonio per circondarsi di artisti, che realizzano opere più fascinose che utili, il cui scopo principale è quello di stupire e di mostrare a tutti la magnificenza del committente.
Sotto il loro regno trovano spazio gli spiriti più liberi e creativi, in ogni campo della tecnica e dello scibile. Così qualche vasaio comincia a specializzarsi nella fabbricazione di vasi di pregevole fattura, dalle forme originali e impreziositi da colorazioni, decorazioni e disegni, e lo stesso vale per il fabbro, il conciatore, il falegname, il tessitore e l’ingegnere, che si cimentano in opere sensazionali. In questa temperie culturale nascono nuove figure di lavoratori, come quella del paggio, del servitore, del danzatore, del cantante, del musicista, dello stalliere, della sacerdotessa, della prostituta di rango, del divinatore, del vate, del glittico, dell’orafo, e via dicendo, che hanno in comune il fatto di essere impegnati in attività sempre più specializzate e sempre più lontane dalla mera sussistenza.
Da questo mondo, che è il mondo della città e della campagna circostante, si distinguono le popolazioni nomadi, che vivono in luoghi poco ospitali e non hanno fissa dimora. Su di loro il re non ha alcun potere, perché è molto difficile per un esercito avere ragione di un nemico capace di dileguarsi nel nulla nello spazio di poche ore, magari per ricomparire altrettanto rapidamente quando meno te lo aspetti. E poi, che senso avrebbe accanirsi contro gente, che non possiede nulla all’infuori dei loro armenti e la cui stessa vita è considerata priva di valore? I nomadi sono liberi, imprevedibili e inafferrabili. Quando la siccità impoverisce i pascoli, ai nomadi non resta altro che saccheggiare le campagne. Sono una spina nel fianco di ogni regno, una vera e propria calamità naturale da sopportare con rassegnazione, come la siccità e l’alluvione. In particolari momenti, tuttavia, avverrà, come vedremo, che un certo numero di tribù nomadi si uniranno sotto un capo comune e riusciranno a conquistare città e a rovesciare regni e imperi.
Tutto questo produce, ed è prodotto, da quella che è passata alla storia come civiltà mesopotamica, una sorta di grande palcoscenico, dove si muovono molte e variegate figure di uomini, alcuni dei quali veramente straordinari e capaci di cambiare il corso degli eventi e di lasciare un segno duraturo nel tempo. La storia di Sumer prende il via dalla necessità di una collaborazione intertribale per costruire efficienti impianti di irrigazione nelle campagne, il che induce più tribù ad unirsi, fino a fondare numerose città-stato, fra cui ricordiamo Uruk, Ur, Kish, Lagash, Nippur, Adab, Larsa, Sippur e Umma. Ciascuna di esse occupa un’area di circa 3-6 Kmq, come Atene ai tempi di Temistocle, e controlla un territorio di circa mille Kmq.
Ogni città ha un suo dio tutelare e i loro destini sono interdipendenti, nel senso che un dio che perde la sua città è debole e scompare dalla scena e, viceversa, una città vincente testimonia la potenza e la vitalità del suo dio tutelare (UHLIG 1981: 26-32). È il dio tutelare a scegliere il re della propria città, il cui compito è di obbedire ciecamente al volere divino, cioè assicurare un futuro brillante alla città. La volontà divina può essere colta attraverso i sogni, gli oracoli, il movimento degli astri, dei venti e delle acque, il volo degli uccelli, e molti altri segni, che i sacerdoti non cessano di osservare. Se qualcosa va storto, la responsabilità è del re, che non ha saputo ubbidire, del sacerdote, che non ha saputo cogliere i segni, e dello stesso dio, che si è lasciato sovrastare da un altro dio. L’inevitabile conseguenza è l’eclissi della città e del suo dio.
Nei primi mille anni, fra le città prevalgono condizioni di relativa pace, ma poi, con l’incremento demografico, aumentano anche le occasioni di tensione, finché, intorno a 4500 anni fa, cominciano le grandi ostilità e le guerre. Da questo momento le città si cingono di mura a scopo difensivo e diventano fortezze. A differenza dell’Egitto, dove prevale la cultura dell’unità nazionale, in Mesopotamia le città-stato non intendono rinunciare facilmente alla loro autonomia e oppongono resistenza ai ripetuti tentativi di creare un grande impero. Di tanto in tanto un re riesce ad estendere la sua autorità sulle altre città meritandosi il titolo di “Re di Sumer” o altri appellativi altisonanti, con i quali verrà ricordato nelle iscrizioni e nei documenti ufficiali.
Col diffondersi della guerra si affermano le prime figure di grandi condottieri, come Eannatum, re di Lagash, intorno al 2500, che combatte con successo contro Uruk, Umma, Ur ed Elam. Nello stesso tempo, si vanno diffondendo varie forme di ingiustizie sociali: privilegi per i più forti, vessazioni per i più deboli. Particolarmente deplorevole appare agli occhi della gente l’oppressione nei confronti di orfani e vedove, a favore dei quali si pronuncia qualche sovrano desideroso di cattivarsi le simpatie del popolo. Tale il caso di Urukagina, re di Lagash (2385-70), il quale si distingue come riformatore sociale.
Il primo grande Re di Sumer è Lugalzagesi, re di Uruk, che, intorno al 2375, riesce ad unificare politicamente la regione del Tigri e dell’Eufrate . In questo periodo, i sumeri concepiscono il mondo come diviso in quattro parti: Nord, Sud, Est, Ovest (a nord e sud c’era il mare, a est l’Elam, a ovest la Siria-Palestina). Naturalmente al centro del mondo c’è la Mesopotamia, la terra fra i due fiumi, e al centro della Mesopotamia c’è Uruk, una sorta di ombelico del mondo, da cui provengono i potenti clan che si insediano nei territori conquistati, dove fondano altri centri urbani sulla falsariga della città madre. Inizialmente sottomessi a Uruk, col tempo questi centri diverranno abbastanza potenti da competere con essa e ingaggiare guerre per ottenere prima l’indipendenza e poi la supremazia.
Non appena l’impero di Lugalzagesi mostra i primi evidenti segni di debolezza, ecco che sorge qualcuno in grado di approfittarne. È Sargon il Grande (2350), un trovatello di provenienza araba, cresciuto alla corte della città di Kish, che fonderà la dinastia degli Accadi e si farà chiamare “re di tutto” (PETTINATO 1994a: 263). In un’antica iscrizione si legge: “Io sono Sargon, re forte, re di Akkad. Mia madre era una sacerdotessa; mio padre non lo conosco; era uno di quelli che abitano le montagne”. Se questo è vero, significa che Sargon non è di sangue reale. Chi realmente fosse Sargon nessuno lo sa, e quel poco che si sa è intriso di leggenda. Si dice che sia un figlio illegittimo, che sia stato deposto in un cesto dalla madre e affidato alle acque del fiume, infine raccolto dal giardiniere del re di Kish e portato nel palazzo, dove viene allevato.
Fuor di leggenda, possiamo immaginare Sargon come un piccolo capoclan, che vive in un’epoca di turbolenza politica e sociale, nella quale i grandi signori delle potenti città-stato si fanno guerra fra loro, mentre, a loro volta, sono minacciati da altrettanto potenti popolazioni nomadi, che non solo razziano il territorio, ma costituiscono anche un vero e proprio elemento destabilizzante. Probabilmente, dopo essere entrato al servizio del re di Kish, Sargon riesce a sfruttare la divisione interna della città e il malcontento popolare per mettere a segno un colpo di Stato e assumere il nome di Sargon, che significa “re legittimo”. Non è per caso che il nuovo re vuole dare risalto alla sua legittimità. Una delle principali cause d’instabilità politica è, infatti, il mancato riconoscimento di un sovrano da parte degli altri aspiranti al potere (come avremo modo di vedere, questo problema attraverserà verticalmente l’intero corso della storia). A maggior ragione, questo principio deve valere per un usurpatore come Sargon. Questa preoccupazione di farsi legittimare prova l’acume politico di Sargon e dimostra che egli è consapevole che “la propaganda del vincitore è almeno altrettanto importante che le sue armi” (CANFORA 2006: 84).
La prima preoccupazione del nuovo re è, dunque, quella di legittimare il suo ruolo e, a tale scopo, egli certamente incoraggia le leggende che vanno circolando sul proprio conto, le quali, in fondo, dimostrano la discendenza divina del sovrano e il suo diritto a regnare e a fondare una nuova dinastia. Ma Sargon è innanzitutto un uomo d’azione e sa che nessuna legittimazione potrebbe conferire stabilità al suo potere se non fosse accompagnata dalla forza militare. Egli si impegna, dunque, in azioni di conquista e, grazie alle sue eccellenti qualità di condottiero e di opportunista, riesce a creare un impero ancora più grande di quello di Lugalzagesi, la cui capitale, la città di Accad, è fatta costruire ex novo dallo stesso sovrano (2350). I vincitori imparano l’arte della scrittura, ma la adattano al loro idioma, creando così una lingua nuova, che avrà fortuna, riuscendo a sopravvivere per quasi due mila anni.
I successori di Sargon si sentono così sicuri della propria legittimazione da farsi divinizzare mentre sono in vita. È Naramsin, nipote di Sargon e conquistatore di Ebla, il primo re a compiere questo passo (2250), ma, evidentemente, questa mossa non basta ad assicurare lunga vita alla sua dinastia. Dopo Naramsin, infatti, ha inizio una fase di declino, che in buona parte è legata all’ascesa di nuovi aspiranti al potere, che accendono conflitti interni e indeboliscono l’impero, dando modo all’orda dei rozzi montanari Gutei di farsi avanti e abbattere la dinastia di Accad (2200). Devono trascorrere una cinquantina d’anni prima che essi vengano sterminati dal re di Uruk, Utukhengal, che avrebbe ricevuto tale ordine dal dio Enlil.
Della cacciata dei Gutei si avvantaggia Urnammu (2112-2095), fondatore della III dinastia di Ur, riescono ad imporre la loro egemonia sulla Mesopotamia meridionale, dando inizio ad una breve rinascita di Sumer. L’opera espansionistica di Urnammu viene proseguita dal figlio Shulgi (2094-2047), il quale, come già Sargon e Naramsin, comprende che non è sufficiente affidarsi alle armi e cerca di superarli. Egli non si accontenta di curare la propria legittimazione, che anzi provvede a rafforzare, facendo divinizzare sia la propria persona, che il proprio ruolo, ad imitazione del faraone, ma tenta anche la via del diritto. Se le popolazioni a me sottomesse, pensa, sanno che possono su una legge scritta uguale per tutti, certamente preferiranno vivere sotto quella legge, piuttosto che muoversi continuamente guerra fra loro, col rischio della vita oggi e senza certezze per il futuro. Shulgi non si limita a emanare il primo codice di leggi che si conosca, ma crea anche un esercito regolare, organizza un enorme e ordinato apparato burocratico e fiscale e unifica il sistema amministrativo in tutto il suo impero, che fa suddividere in province, ciascuna delle quali viene affidata ad un governatore e presidiata da un corpo militare. Più di così proprio non può fare, ma Sumer non è come l’Egitto: qui la pace interna non basta a rendere duraturo un sistema politico, perché i nemici esterni sono forti e minacciosi.

Il Diritto sumero
A fronte di un sempre più frequente ricorso alla guerra, in realtà i “sumeri erano fondamentalmente pacifici e amavano la vita. Nella loro letteratura si parla poco di guerre e di battaglie e i loro re si vantano più volentieri delle opere civili e religiose che hanno costruito che non delle imprese militari” (CHIERICI 1980: 43). I Sumeri sono i primi a concepire un diritto civile formalmente codificato.
Che cos’è il diritto? “Sostanzialmente il diritto consiste in un insieme particolarmente definito di norme sociali che sono mantenute in vigore attraverso la applicazione di sanzioni «legali»” (HOEBEL 1973: 26). Parliamo propriamente di diritto solo in presenza di leggi scritte e della forza necessaria per farle rispettare, anche se esistono forme di diritto primitive, ma non per questo meno funzionali.
Quando nasce il diritto? Il primo esempio a noi noto di diritto propriamente detto è quello che si realizza sotto il regno di Shulgi. Prima esisteva una forma di diritto non scritto, che corrispondeva, in ultima analisi, alle aspettative del gruppo familiare-clanico, o all’autorità morale di un leader riconosciuto e stimato, o alla volontà del più forte.
Perché si afferma il diritto? Il diritto si afferma perché svolge determinate funzioni. “Il compito fondamentale del diritto è quello di definire innanzitutto le relazioni personali […]. Esso stabilisce le aspettative di un individuo nei confronti di un altro individuo, di un gruppo nei confronti di un altro gruppo, cosicché ognuno conosce il nucleo e le limitazioni dei propri diritti nei riguardi degli altri, dei propri doveri, delle proprie facoltà e poteri” (HOEBEL 1973: 389-90). Sotto questo aspetto, il diritto svolge la stessa funzione delle lotte territoriali presso gli animali, ovvero stabilisce l’ordine di accesso alle risorse, senza che si debba venire ogni volta alle mani. Una volta stabiliti i rapporti di forza, gli animali si comportano in modo ordinato e rispettano le gerarchie. Per gli umani non è molto diverso: le norme del diritto e svolgono la stessa funzione delle lotte territoriali, che è quella di evitare il ricorso continuo alla forza.

I figli e successori di Shulgi, Amarsin (2046-2038) e Shusin (2037-2029), che pure vorrebbero espandersi, devono badare soprattutto a difendersi dalla penetrazione degli Amorrei e dalla minaccia degli Elamiti e l’ultimo re di Ur, Ibbisin (2028-2004), nonostante faccia di tutto per evitare il disastro, nulla può contro il dilagare di queste orde fameliche, che finiscono per tavolgerlo. L’impero sumero si frantuma in molti Stati epigoni (Isin, Larsa, Eshnunna, Assiria, Babilonia, Mari, Aleppo, e altri ancora), che verranno unificati da Hammurabi oltre due secoli dopo. Saranno due secoli di divisione, di lotta e di caos politico. Con Ibbisin si conclude la storia della civiltà sumerica, che sarà presto dimenticata. Saranno gli scavi archeologici, effettuati nel XX secolo, tra la prima e la seconda guerra mondiale, a riportarla alla memoria. Ma qual è il livello culturale espresso da questa antica civiltà?
Il cuore della città sumerica è il tempio, detto Ziqqurat, dalla caratteristica forma architettonica a piramide tronca a gradini , il quale non ha soltanto un significato religioso, ma svolge anche funzioni economiche e amministrative. Il tempio è innanzitutto la casa del dio e svolge una funzione religiosa, che è quella di soddisfare l’ormai radicato bisogno di rendere il dovuto omaggio alla divinità tutelare. Grazie alla sua imponenza e alla sua ubicazione in zone strategiche, il tempio costituisce anche un ottimo punto di osservazione del movimento delle acque, il che rende possibile il miglioramento del sistema di canalizzazione, col duplice vantaggio di sfruttare il prezioso liquido senza lasciarsene travolgere. Dall’alto del tempio non si osservano solo le acque, ma anche il cielo, gli astri, il volo degli uccelli, il soffiare dei venti e altri fenomeni, che vengono utilizzati anche come presagi, o come indizi per la divinazione.
Al dio tutto appartiene, comprese le terre, che vengono affidate alla cura di contadini, i quali, a loro volta, hanno l’obbligo di versare una parte dei loro prodotti, che vengono ammassati e ordinati in appositi magazzini, annessi al tempio. Dalla necessità di controllare, ordinare e amministrare i versamenti dei contadini, deriva l’esigenza di istituire un apparato burocratico, a capo del quale c’è il sacerdote, che è il vero capo e padrone di tutto. A poco a poco il personale del tempio impara a marchiare i singoli prodotti che vi affluiscono, a sigillarli e a catalogarli, ad accompagnare i prodotti di scambio con alcune indicazioni essenziali, a registrare atti di compra-vendita, prestiti, o qualsiasi altro atto pubblico o privato.
È così che viene inventata, in modo autonomo, probabilmente nel tempio di Uruk, intorno a 5000 anni fa, quella scrittura, che oggi viene chiamata cuneiforme . I reperti archeologici inducono a ritenere che la scrittura sia iniziata come pittogramma, ossia come riproduzione schematica dell’oggetto corrispondente, per divenire, in un secondo tempo, sempre più astratta (scrittura ideografica e simbolica). Lo stesso vale per i numeri: inizialmente (12-15 mila anni fa) si usa la corrispondenza univoca (tante tacche su un osso o un legno quanti oggetti da rappresentare); successivamente si cominciano ad usare simboli diversi per numeri (o quantità) diversi (PETTINATO 1994a: 44-6). Attraverso la scrittura, i sacerdoti e i funzionari non solo amministrano il surplus della comunità cittadina, ma possono anche segnare i nomi delle cose.
A poco a poco, il “nome” diviene così importante da costituire, nell’immaginario sumerico, la stessa essenza della cosa. I Sumeri credono che ogni cosa, per esistere, debba avere un nome e che la conoscenza e l’uso di quel nome equivalga ad esercitare un qualche potere sulle cose stesse, ed ecco perché i più antichi documenti sumerici, di natura non contabile, sono elenchi di nomi. Pronunciando e scrivendo il nome di oggetti, di piante, di animali, di persone e di divinità, i Sumeri hanno l’impressione di controllare la realtà, in gran parte misteriosa, che li circonda. Col passare del tempo, all’interno dei templi vanno prendendo forma i primi racconti basati sul ricordo di eventi più o meno remoti, risultandone costruzioni piuttosto libere e fantasiose, ma pur sempre in grado di dare un senso al presente e di costituire l’identità culturale di una città o di una intera regione e che, un giorni, dai Greci, verranno chiamati miti.
Composto di “parole”, già di per sé considerate magiche, anche il mito è accreditato di poteri straordinari. Di fatto, esso svolge una funzione simile a quella svolta dall’idea di dio, ma, mentre questa è vista come affare esclusivo del sacerdote o di pochi privilegiati, il mito appartiene a tutti, è di dominio pubblico. Il racconto mitico non nasce in un giorno, né viene a costituirsi nel sogno o per illuminazione, come i messaggi divini, ma prende forma nell’immaginario collettivo, a partire da esperienze comuni e da eventi di portata pubblica realmente accaduti e ritenuti tanto rilevanti da meritare di essere ricordati e spiegati, come la fondazione di una città, un’alleanza, una guerra, una lunga carestia o una grave epidemia. Il ricordo di eventi memorabili, che si susseguono nel corso degli anni, viene trasmesso di generazione in generazione e in forma essenzialmente orale, con l’aggiunta di libere interpretazioni e senza curarsi della sua fedele corrispondenza ai fatti realmente accaduti.
Col trascorrere del tempo, il racconto finisce col perdere ogni verosimiglianza con gli eventi che lo hanno generato e resta il puro e semplice mito, ossia un tentativo libero di spiegazione della realtà. Senza esserne necessariamente consapevole, attraverso il racconto mitico, l’uomo svela i misteri della vita, l’origine dell’universo e degli animali, degli uomini e degli dèi, delle dinastie e delle città, dei popoli e delle tradizioni, del dolore e della morte, della natura e del destino dell’uomo. Il mito viene da lontano e si perde nella notte dei tempi, non ha un autore umano ben definito e viene considerato come esistente da sempre. Esso è accolto come una verità di fede, assoluta e indiscutibile, e periodicamente riproposto in occasione della celebrazione di certi riti, all’interno di un tempio o di un palazzo, o nell’occorrenza di certi eventi sociali di particolare importanza, come il raccolto del grano, la tosatura delle pecore, l’anniversario della fondazione della città o dell’affermazione di una dinastia. La maggioranza dei miti conservano un’importanza locale e vengono dimenticati, ma alcuni di essi vengono messi in forma scritta, all’interno di un palazzo o di tempio, e diventano imperituri.
Uno dei pochi racconti, che è potuto giungere fino a noi, è il celeberrimo poema di Gilgamesh, composto a Uruk intorno a 4500 anni fa (PETTINATO 1994a: 144). Chi è Gilgamesh? Non si sa di preciso. Forse è un personaggio reale, un re di Uruk, vissuto circa 4600 anni fa e reso famoso, al suo tempo, per essersi posto, analogamente al suo collega faraone, l’obiettivo dell’immortalità. Già subito dopo la sua morte, su di lui circolano un certo numero di aneddoti, che vengono prima raccontati in forma orale e in modo frammentario, e, successivamente, in qualche palazzo, poi raccolti e messi in forma scritta in lingua sumerica. L’opera ha successo e si diffonde in tutto il Vicino Oriente. Intorno a 3000 anni fa, essa viene tradotta in lingua assira e viene conservata nella biblioteca del palazzo di Ninive, voluta da Assurbanipal, dove è stata ritrovata a seguito degli scavi archeologici compiuti nel XIX secolo. Ecco una sintesi del racconto.

Gilgamesh è il potente e arrogante re di Uruk. Stanchi del suo strapotere, i sudditi si rivolgono agli dèi perché gli oppongano qualcuno di pari valore. Gli dèi creano allora Enkidu, un uomo di mentalità primitiva e selvaggia, che cresce in compagnia degli animali selvatici. Saputo delle prepotenze del re, Enkidu si reca in città e lo affronta, ma Gilgamesh si mostra valoroso tanto che, alla fine, Enkidu riconosce la legittimità del suo potere e i due diventano amici. Insoddisfatti della loro vita tranquilla, i nostri eroi decidono di intraprendere un viaggio alla ricerca di gloria. Strada facendo, la dea Istar si innamora di Gilgamesh, ma questo la respinge perché sa che la dea ha trasformato molti suoi amanti in animali. Irritata, Istar si rivolge ad Anu, il dio della volta celeste, chiedendogli di vendicarla. Anu manda contro i nostri eroi il gigantesco Toro del Cielo, ma essi lo uccidono. Invidiosi della loro fortuna, gli dèi decidono la morte di Enkidu, il quale, lamentando la sua fine ingloriosa, lontano dai campi di battaglia, esala l’ultimo respiro fra le braccia dell’amico, che ne piange la perdita. Sentendo incombere anche su di sé la minaccia della morte, Gilgamesh vuole scoprire il segreto dell’immortalità e si mette in viaggio alla volta di Utnapistim, l’unico uomo che sembra l’abbia ricevuta dagli dèi e che vive in un’isola agli estremi confini della terra. Lungo il cammino deve superare una serie di difficoltà, che si frappongono fra lui e Utnapistim: affronta due mostri spaventosi, che fanno la guardia al “Giardino delle Delizie”, resiste ad una locandiera, che cerca di dissuaderlo prospettandogli l’irrealizzabilità dell’impresa, e attraversa l’Oceano. Gilgamesh non si ferma davanti a nessun ostacolo, finché giunge al cospetto di Utnapistim, il quale, dichiaratosi disponibile a svelargli il segreto dell’immortalità, gli racconta come gli dèi abbiano mandato sulla terra il diluvio universale, come egli, aiutato dal dio Ea, abbia costruito un’arca e vi abbia caricato la propria famiglia e tutti gli animali salvandosi, e, infine, come, per grazia degli dèi, gli sia stato concesso di vivere per l’eternità in quella remota isola. Avendo compreso che non c’è alcun segreto da svelare e che l’immortalità è una prerogativa divina, deluso, Gilgamesh si prepara al ritorno, quando Utnapistim, tratto in compassione, vuole dargli un’estrema possibilità: se avesse raccolto una certa pianta, che si trova in fondo al mare, e l’avesse mangiata, avrebbe guadagnato l’immortalità. Ancora una volta, l’eroe affronta con successo l’impresa e, mentre fa ritorno alla sua città con l’intento di far mangiare la pianta a tutti gli uomini, essendosi fermato a bere da una sorgente e avendo deposto a terra la pianta, un serpente gliela rapisce. Così Gilgamesh ritorna a Uruk a mani vuote.


Il mito di Gilgamesh ci permette di cogliere il livello di civiltà raggiunto dai Sumeri, che appaiono in grado di riflettere sulla natura degli uomini. Dal momento che l’intelligenza, la forza, la volontà e il coraggio non bastano a fare di lui un essere immortale, all’uomo altro non resta che accettare i propri limiti e rassegnarsi al proprio destino. Tale è il senso tragico dell’opera, che presenta tratti di grande interesse, alcuni dei quali saranno poi ripresi dalla letteratura successiva, in particolare dalla Bibbia (Giardino delle Delizie, Diluvio) e dai poemi omerici (uomini-eroi, dèi antropomorfizzati, viaggio avventuroso, pianto per la morte dell’amico).
I Sumeri spiegano il mondo con argomentazioni di natura religiosa. Le loro riflessioni sulla sfera divina si sviluppano in almeno due distinte fasi: nella prima, la divinità è identificata con le manifestazioni naturali, con le quali gli uomini si trovano in quotidiano rapporto, come il vento, la pioggia, il fuoco, le nuvole e gli astri, nella seconda, che corrisponde all’età storica, le divinità acquistano un aspetto personale e antropomorfo. In entrambi i casi, c’è spazio per un indefinito numero di divinità: si conoscono circa 500 divinità sumeriche! Ma come sono queste divinità? Innanzitutto, esse hanno un inizio, perciò non sono eterne, inoltre provano gli stessi sentimenti umani, hanno desideri e passioni, ricorrono all’inganno, mangiano e bevono, si accoppiano e hanno figli. La loro vita è segnata da successi e insuccessi, come avviene per gli uomini, con l’unica differenza che gli dèi sono immortali. Oltre alle divinità antropomorfe, i Sumeri riconoscono tutta una serie di esseri che stanno a metà strada tra il divino e l’umano, siano essi eroi divinizzati, superuomini, semidei, mostri, demoni o angeli, e si può dire che ogni sumero ha almeno un dio a cui offrire preghiere e sacrifici, indossa amuleti contro le malattie, recita formule ed esegue atti di scongiuro, il tutto allo scopo di tenere lontane le potenze del male, di cui crede che l’universo sia popolato.
Secondo i Sumeri, solo un dio può fondare una città e, nel momento in cui lo fa, egli ne diviene legittimo proprietario e s’impegna a difenderla come cosa propria. Così, ad ogni città corrisponde una divinità tutelare e i loro destini (quello del dio e quello della città) sono ritenuti interdipendenti, nel senso che un dio che perde la sua città è considerato un dio debole e, viceversa, una città prospera testimonia la potenza del suo dio. Gli stessi sovrani sono ben consapevoli che “la loro designazione a re e le loro fortune politiche e militari sono dovute alla benevolenza del dio cittadino, ma soprattutto del dio Enlil, capo indiscusso del Pantheon sumerico” (PETTINATO 1994a: 303). Se l’effettivo proprietario di una città è un dio, il sacerdote-re è solo un “affittuario” (SAPORETTI 2002: 29). I Sumeri sono convinti che i protagonisti delle vicende umane sono le divinità e non concepiscono una “storia” come descrizione di fatti umani, che si possono spiegare con una logica umana. Al contrario, secondo i Sumeri, gli avvenimenti sono decretati dagli dèi e l’uomo può solo prenderne atto, senza pretendere di addentrarsi in inutili analisi e discussioni.
I Sumeri ignorano l’idea di peccato e il principio di retribuzione, perché negano la responsabilità dell’uomo. Tutto ciò che accade dipende dalla volontà degli dèi, non da quella degli uomini. Anche l’ordine sociale vigente si ritiene costituisca l’espressione della volontà del dio tutelare, e lo stesso vale per il sacerdote e il re: entrambi sono prescelti dal dio come suoi strumenti, con lo scopo di dare attuazione pratica alla sua volontà. I Sumeri credono che la creazione dell’uomo faccia parte di un piano imperscrutabile degli dèi e ritengono che l’uomo possa contribuire a realizzare quel piano attraverso l’obbedienza nei confronti dell’autorità costituita, vale a dire il re, coi suoi rappresentanti, e i propri genitori. Inoltre, pensano che, lavorando, l’uomo non solo provvede al proprio sostentamento e a quello dei funzionari, ma si assicura anche la benedizione degli dèi. Ritengono, infine, che, dopo la morte, la vita continui, seppure in una forma grigia e di scarso interesse, che può essere alleviata dalle offerte funerarie, in mancanza delle quali, i morti stessi potrebbero rendersi minacciosi. Tutti allora sono chiamati ad impegnarsi nelle opere della vita terrena e a confidare nella benevolenza del dio e della fortuna.
Il favore degli dèi è essenziale per il benessere degli uomini e si guadagna rispettando la loro volontà. Ma come è possibile leggere nella testa di un dio? Attraverso l’osservazione e l’interpretazione di ogni possibile segno divino. Dal desiderio di conoscere la volontà degli déi, si sviluppano alcune tecniche di divinazione, che si basano sull’interpretazione dei sogni, dei fenomeni naturali, dei movimenti degli astri, e altro ancora. La funzione, che prima era svolta dallo sciamano, che era un personaggio singolare e personalissimo, adesso è svolta dal divinatore, che è un anziano funzionario dello Stato e un servitore del re. E se i presagi sono funesti? Niente paura: si può sempre ricorrere ad un qualche rito di purificazione e ad altre misure idonee a scongiurare le previsioni. La divinazione rappresenta, per l’uomo mesopotamico, ciò che la scienza sarà per l’uomo moderno, e gli anziani che la praticano sono tenuti in alta considerazione e vengono regolarmente consultati in ogni occasione importante, sia dal sovrano che dalle persone comuni.
Coerentemente coi loro presupposti religiosi, i Sumeri sono degli osservatori minuziosi, analitici, scrupolosi, e ciò permette loro di acquisire importanti conoscenze sui fenomeni naturali e in campo astronomico. Mostrano invece gravi lacune sotto il profilo della sintesi, dell’astrazione, della creatività e dell’inventiva, e, sotto questo aspetto, la loro cultura rimane empirica, legata al particolare. I Sumeri non giungono mai a formulare una legge universale, nemmeno in campo matematico! La causa di ciò va ricercata ancora una volta nelle loro credenze religiose. Essi, infatti, concepiscono la scienza come un dono concesso agli uomini da questo o da quel dio e che l’uomo deve semplicemente raccogliere e trasmettere il più fedelmente possibile alle generazioni future, senza pretendere di produrlo con le proprie forze. Da questo atteggiamento mentale deriva inevitabilmente una tendenza alla conservazione e all’immobilismo.

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