sabato 5 settembre 2009

2. I Mesopotamici

Fino a 10 Kyr fa, i mesopotamici vivono sparsi in piccoli gruppi tribali all’interno di grandi territori, dove si muovono alla ricerca di cibo, praticano un’economia basata su caccia e raccolta e hanno scarsi contatti fra loro. Proprio in questo periodo, però, essi cominciano a sfruttare meglio l’ambiente e imparano a produrre cereali, legumi e frutta, e ad allevare ovini e bovini. In questo stesso periodo sorgono i primi dominî, come quelli di Jarmo in Iraq, ma già 6 Kyr fa, i dominî sono disseminati in tutta la Mesopotamia e, cinque secoli dopo, cominciano a sorgere, intorno ad un tempio, le prime “grandi” città, dove si inventa la scrittura e con le quali ha inizio una nuova stagione per l’umanità, che in seguito verrà chiamata “civiltà”.
A differenza dell’Egitto, la Mesopotamia è una regione geograficamente aperta, ed è abitata da molti popoli diversi in cultura e in potenza e poco adatti a lasciarsi inquadrare in un sistema monolitico, com’è quello faraonico (vedi avanti). Il clima è caldo e poco piovoso e tale da non consentire l’agricoltura se non ricorrendo ad una irrigazione artificiale, che, a sua volta, è possibile solo in virtù del lavoro organizzato di molte persone. L’area è povera di pietre e metalli, ma può contare sull’acqua dei fiumi che, opportunamente canalizzata, rende fertili le campagne. L’assenza di barriere naturali ha, come conseguenza ovvia, da un lato uno straordinario sviluppo di attività commerciali, dall’altro un altrettanto straordinario rischio di aggressioni e di guerre, che induce le famiglie ad organizzarsi meglio che possono, anche se non tutte lo fanno allo stesso modo: alcune preferiscono rimanere fedeli al vecchio ordinamento tribale e alla vita nomade, altri fondano città e le cingono di mura. Particolare importanza acquista la figura del condottiero-re, che si affianca stabilmente a quella del sacerdote-re. Ogni città-stato ha almeno una divinità tutelare, da cui dipende il futuro del re e della stessa città. Alla fine, la triade dio-re-città viene accomunata dallo stesso destino.
Agli inizi dell’Età dei Metalli, l’intera regione mesopotamica è disseminata di potenti popolazioni nomadi e di ancora più potenti città-stato, vere entità politiche autonome e centri di potere, che sono spesso in lotta fra loro. In Mesopotamia non viene avvertita l’aspirazione ad un’organizzazione unitaria e il frazionamento politico non è ritenuto un male assoluto, come avviene invece in Egitto: “il particolarismo rimane una forza indomabile” (AYMARD, AUBOYER, 1955: 106). Quando due città si fanno guerra, il re perdente può essere ucciso oppure viene lasciato al suo posto, come vassallo, con l’obbligo di dare al vincitore un tributo e sostegno militare in caso di necessità, mentre la popolazione sconfitta può essere sterminata o lasciata in vita e schiavizzata. Intensa è l’attività diplomatica dei vari sovrani, che si controllano l’un l’altro, pronti a cogliere l’occasione favorevole per sferrare un attacco, ma altrettanto prudenti e disposti a stipulare alleanze, o a stringere rapporti di amicizia, per mezzo di matrimoni combinati, se la situazione lo richiede. Il più delle volte i rapporti fra i centri di potere risultano precari e ben presto si rompono per dar luogo a nuovi equilibri, anche questi fragili, senza mai giungere a situazioni stabili e durature.
A differenza di quello egizio, il re mesopotamico non è un dio e nemmeno un semplice uomo. Egli è “il rappresentante della divinità presso gli uomini e il rappresentante degli uomini presso la divinità, l’intermediario fra il mondo divino e il mondo umano” (AYMARD, AUBOYER, 1955: 110). Il re è un “semplice” servitore della divinità, che lo presceglie allo scopo di portare a compimento un proprio piano. Egli perciò è tenuto a cogliere e mettere in pratica la volontà divina, che di solito consiste nell’assicurare un futuro glorioso alla dinastia e alla città. Perciò egli deve dimostrare di essere all’altezza del compito, e il miglior banco di prova non può essere altro che il campo di battaglia. “È a lui che gli dèi promettono e concedono la vittoria. Perciò le descrizioni delle campagne militari assumono la forma di rendiconti resi alla divinità da cui il re si ritiene protetto” (AYMARD, AUBOYER, 1955: 110). La legittimazione del re mesopotamico perciò non è scontata, ma dev’essere continuamente confermata con azioni di forza convincenti: solo chi esce vittorioso dalle guerre è amato dagli dèi e merita di essere chiamato re. Coerentemente, i re mesopotamici non solo si battono per l’indipendenza della propria città, ma cercano anche di esercitare un controllo sulle tribù locali ed estendere il proprio dominio sulle altre città, attuando un disegno imperialistico, l’unico in grado di sancire in maniera chiara e definitiva la superiorità della propria triade su tutte le altre.
I mesopotamici hanno una concezione antropomorfa della divinità. Ciò vuol dire che essi concepiscono il mondo divino sulla falsariga di quello umano, più precisamente di quello regale. Gli dèi sono altrettanti monarchi, che, stanchi di provvedere a se stessi col proprio lavoro, un bel giorno decidono di creare gli uomini affinché lavorino per loro e si pongano al loro totale servizio. Gli dèi si sposano, si riproducono, hanno sentimenti, volontà, progetti, strategie, disavventure, bisogni; si adirano, si vendicano, vincono, perdono, a volte sono clementi, altre volte severi. “A somiglianza dell’uomo, il dio ha bisogno di una casa per sé e per la sua famiglia: e la sua casa è il tempio” (AYMARD, AUBOYER, 1955: 131). Anche il dio ha bisogno di una casa (il tempio) e di nutrimento, che è costituito dalle offerte dei fedeli e dagli animali sacrificali. Le singole divinità appartengono a ranghi diversi e sono ordinati gerarchicamente, anche se la loro posizione non è immutabile ed è possibile per un dio essere declassato o promosso.
Il dio-padre è il sovrano della città e vive nel tempio, insieme alla sua consorte, ai suoi figli, ai suoi funzionari, allo stesso modo in cui un re vive nel proprio palazzo, con la propria famiglia e la propria corte. An, Enlil, Enki, Nanna, tanto per citarne alcuni, sono i rispettivi sovrani divini di Uruk, Nippur, Eridu e Ur, ma essi non sono riconosciuti solo nella propria città. Nel panteon mesopotamico c’è posto per tutte le divinità, anche se tre di essi occupano i gradini più alti, e sono, in ordine di importanza: An, il quale esercita una sorta di autorità morale, Enlil, che è il sovrano effettivo, ed Enki, che è una sorta di primo ministro (BOTTÉRO, KRAMER 1992: 53-5). Se non vogliono essere puniti, i re umani devono attenersi alla volontà divina e rifuggire dalla trasgressione (peccato). Il male che incombe sugli uomini riconosce due principali cause: i peccati, appunto, e le azioni di divinità malvagie e demoniache, di cui è riccamente popolato l’immaginario mesopotamico.
Ogni “triade” (dio-re-città) ha la sua storia: alcune decadono e scompaiono dalla scena politica senza lasciare un duraturo ricordo di sé, altre diventano sempre più potenti fino a realizzare grandi e duraturi imperi e vere e proprie civiltà, la cui memoria verrà tramandata nei secoli. Cominciamo dai Sumeri.

Nessun commento:

Posta un commento