sabato 5 settembre 2009

4. Gli Egizi

La regione egizia è resa unica dalla sua particolare posizione geografica, che la vede isolata e protetta da ogni lato: a nord dal mare, ad est ed ovest dal deserto, a sud dalle cataratte del Nilo. A ciò si aggiunga il fatto che il Nilo, essendo in buona parte navigabile, favorisce gli spostamenti, le comunicazioni, gli scambi e lo sviluppo di una cultura e di un linguaggio comuni. La civiltà egizia è preceduta da fatti, che hanno a che fare con la diffusione dell’agricoltura e la cui sequenza ricalca quella già descritta a proposito di Sumer. Lungo le rive del Nilo l’agricoltura inizia intorno a 6300 Kyr fa (BLAINEY 2000: 51), facendo sì che molte famiglie estranee traessero le risorse per il proprio sostentamento da un territorio relativamente ristretto e fossero pertanto disposte a collaborare in vista di questo comune scopo.
Alla fine del Neolitico, la valle del Nilo è interamente occupata da innumerevoli accampamenti di gruppi nomadi, che si muovono sotto la guida di un anziano e/o di uno sciamano, mentre, qua e là sorgono villaggi permanenti o domini, ciascuno presieduto da un sacerdote e una divinità tutelare, e città-stato governate da re. Vivendo a stretto contatto e senza possibilità di fuga, i diversi gruppi devono fare i conti, come sempre, con l’inevitabile alternanza di periodi di abbondanza e periodi di penuria. Come sappiamo, è soprattutto nei momenti di scarsità che le famiglie si sentono motivate a cercare una soluzione e talvolta lo stato di malessere è tale da indurre gli sciamani e i sacerdoti a interpellare le loro divinità e chiedere lumi sul comportamento più opportuno da tenere e sulle iniziative da prendere. È meglio accordarsi pacificamente o tentare una via di fuga? È preferibile lo scontro armato autonomo o è preferibile cercare alleanze? Qualche ambizioso re approfitta di queste condizioni favorevoli per avviare una politica di conquista. Così avviene che, “attraverso successive fusioni di tribù sotto capi più potenti” (CIMMINO 1994: 141), si giunge alla formazione di due regni, il regno del Nord e quello del Sud, il Basso e l’Alto Egitto.
È solo intorno a 5100 anni fa, data in cui si suole collocare l’inizio della “storia” dell’antico Egitto, che Menes (o Narmer), re dell’Alto Egitto, riesce ad unificare i due regni, non si sa se a seguito di accordi pacifici o, come appare più probabile, con la forza delle armi, e fonda una dinastia, la prima dell’Antico Regno. Salito al trono, il giovane Menes si preoccupa innanzitutto di consolidare il suo potere, realizzando condizioni di pace e di giustizia, finché, un giorno, decide di riunire i principali sacerdoti del suo regno e rivolge a loro pressappoco queste parole:

Ringrazio il dio che, dopo avermi prescelto come suo umile servo e figlio prediletto, mi ha concesso la vittoria e ha consegnato nelle mie mani un grande paese. Lo stesso dio mi ha manifestato in sogno le sue volontà. Egli vuole che io assuma le funzioni di sommo sacerdote e mi dà facoltà di prendermi cura del suo paese. In virtù di questa autorità concessami dal dio, ordino che ciascuno di voi provveda a delimitare i confini del proprio territorio, assegni a ciascuna famiglia di contadini un terreno da coltivare e a tutte le altre famiglie uno spazio dove svolgere la propria attività lavorativa, con l’unico impegno per tutti di versare un tributo al grande dio. In quanto a voi, vi assegno il compito di amministrare la vostra gente e di vigilare affinché ciascuno rispetti il proprio spazio, svolga bene il proprio lavoro e versi il dovuto al tempio. Da parte mia, mi impegno a proteggervi tutte le volte che sarete minacciati da un qualche pericolo e me ne farete richiesta, e vi aiuterò anche ad amministrare la giustizia.


I sacerdoti riconoscono la natura ispirata di quelle parole e perciò le accettano con entusiasmo e plaudono al loro grande re, che prima si insedia a Thinis, la città resa illustre da Figlio di Tuono, poi fonda Menfi, che diviene la prima capitale del “Regno Unito”, e la Prima Dinastia, dando così inizio alla straordinaria storia dell’Egitto.
L’Antico Regno (3000-2181) si rivela particolarmente stabile e, già durante la prima dinastia, fanno la loro comparsa le prime forme di architettura in mattoni, che trova applicazione soprattutto nella costruzione di tombe, e la scrittura ideografica (CLARK 1986: 308-9). L’opera di Menes viene proseguita dai successori, che dividono il paese in province, le affidano a funzionari e le amministrano attraverso un rigido e articolato apparato burocratico. Grazie alla sua organizzazione e ai suoi confini naturali, che lo proteggono da ogni parte, l’Egitto può finalmente iniziare a godere di un lungo periodo di pace e ciò consente al suo sistema sociale di consolidarsi, attorno alla figura del re-sacerdote. Almeno a partire dalla Quinta Dinastia, si ritiene che il faraone sia generato da una madre umana senza intervento di un padre umano e senza atto sessuale, ma attraverso il volere espresso dalla divinità (TOYNBEE 1981: 299). Questa credenza nella natura divina del re non cesserà mai del tutto nel corso della lunga storia dell’Egitto e costituirà un elemento caratteristico di questo paese. “L’Egitto faraonico ci fornisce uno degli esempi più impressionanti di monarchia assoluta: il diritto divino, fondamento di tutte le monarchie di questo genere, vi ha trovato la sua espressione più energica e le conseguenze più estreme” (AYMARD, AUBOYER, 1955: 34).

Dietro la divinizzazione, il nulla
“Gli uomini, ..., divinizzano troppo spesso il potere. Attribuiscono ai capi una facoltà pressoché illimitata di modificare la storia del mondo. Immaginano che i governanti esercitino un pieno controllo sulla politica, sull’economia, sulle burocrazie, sugli apparati militari. Ma si ingannano. La realtà del potere è diversa dalle apparenze. Un capo conosce molto poco il mondo che lo circonda, e molto poco riesce a trasformarlo...” (MELOGRANI 1977: 1). “In un mondo così pieno di incertezze, di contraddizioni e di pericoli, molti cercano di rassicurarsi immaginando che esista un «potente», il quale sia sempre in grado di cogliere la realtà delle cose e di compiere le giuste scelte. E il «potente», se vuole recitare in modo convincente la sua parte, deve partecipare all'inganno. Con gli onori, le pompe, le parate, i cerimoniali, egli deve occultare a se stesso e agli altri la sua insicurezza e la sua miseria” (MELOGRANI 1977: 1-2).

L’Antico Regno si dissolve non già ad opera di un attacco esterno, ma a causa di una rivoluzione sociale interna, che è indotta dalla spinta indipendentista dei signori locali e si risolve nella frantumazione del Regno in una miriade di principati e in una situazione di caos politico sempre meno tollerabile. I tentativi di ricomporre l’unità giungono a buon fine intorno al 2050, quando Mentuhotep II inaugura il Medio Regno (2050-1720), ma i faraoni dovranno combattere ripetutamente contro signori locali recalcitranti, che non si rassegnano all’obbedienza. Il risultato di questa nuova situazione politica è la costruzione di fortezze, che costituiscono l’elemento caratteristico di questo periodo. Il Medio Regno si chiude con l’invasione degli Hyksos, che introducono in Egitto il cavallo e il carro da guerra.
È Amosis che riesce a cacciare gli Hyksos e fondare il Nuovo Regno (1575-1090). Tra i faraoni di questo periodo si distingue Thutmosi III (1504-1450), il quale “è stato, con tutta probabilità, il primo grande condottiero della Storia dopo Sargon; certamente, il primo delle cui imprese si abbia notizia in modo dettagliato, anche perché egli stesso si preoccupò di portarsi dietro, nelle sue diciassette campagne, degli scribi che annotassero e infiorettassero le sue imprese” (FREDIANI 2005: 540). Se Thutmosi III spicca come uomo d’azione, Amenofi IV (1364-1347 a.C.) lascia il suo segno come uomo religioso e verrà ricordato come colui che ha tentato, senza successo, di imporre in Egitto una religione monoteista, che ha nel dio-sole, o Aton, il suo unico dio. Dopo aver cambiato il proprio nome in Ekhnaton, che vuol dire «Colui che è utile ad Aton», il faraone adotta misure energiche allo scopo di imporre la nuova dottrina, tra cui la cancellazione dei nomi delle altre divinità (GARDINER 1971: 208) e il rinnovamento dei quadri amministrativi dello Stato con funzionari, ai quali viene richiesto, come requisito essenziale, l’avere abbracciato la nuova fede.
Molti accettano allora il monoteismo, ma molti altri vi si oppongono, specie i sacerdoti e il personale addetto al culto delle numerose divinità d’Egitto, che rischiano di scomparire. È possibile che Mosè, e gli Ebrei che lo seguiranno fuori d’Egitto, abbiano serbato il ricordo del monoteismo di Ekhnaton e ne siano stati influenzati. Dopo la fine della ventesima dinastia (1090) la storia dell’Egitto è segnata dal dominio di forze straniere (nell’ordine: assiri, persiani, greci e romani), ma, nondimeno, la civiltà egizia sopravvivrà fino alla morte di Cleopatra (30 a.C.).
La società egizia costituisce un’autentica novità nel panorama mondiale: è una società che cala dall’alto, come se fosse stata disegnata dal dio in persona, a forma di piramide, rigidamente divisa in caste chiuse e dove a ciscuno è assegnato un compito ben preciso. Al re e sommo sacerdote, il dio stesso ha riservato un ruolo e ha deciso che a quel ruolo si può accedere per diritto di nascita. Da qui alla divinizzazione del re, il passo è breve. Nasce così il faraonismo, ossia un sistema sociale ordinato intorno alla figura di un re-dio. La divinizzazione del sovrano rende possibile la realizzazione di una società umana di dimensioni mai viste prima. Milioni di persone sparse su un territorio di centinaia di migliaia di Kmq, che, in quando sudditi dello stesso re-dio, si ritengono appartenenti allo stesso popolo e condividono la stessa cultura, costituisce un fenomeno nuovo e straordinario, in precedenza nemmeno immaginabile.
In teoria l’intero paese si considera proprietà degli dèi e vive per gli dèi. In realtà, ogni persona e ogni cosa appartengono al faraone, anche se questi non manca mai di riconoscere, umilmente, che il proprio potere viene dal cielo. In ogni caso, per l’Egitto il faraone è tutto: è sommo re e sommo sacerdote, è uomo e dio, e ciò gli conferisce un potere assoluto. Egli è consapevole delle proprie origini divine o, almeno, così lascia credere. “Sono il figlio vostro, creato dalle vostre due braccia. Voi mi avete fatto sovrano Vita, Salute, Forza di ogni paese. Voi avete fatto di me la perfezione sulla terra” (CIMMINO 1994: 138). Il faraone incarna lo spirito dell’intero paese e la sua volontà ha valore di legge. Ciò spiega perché gli egizi non avvertono l’esigenza di elaborare alcun codice di leggi (BRIGHT 2002: 55). Nessun individuo, a parte il faraone, è riconosciuto portatore di diritti propri. Tutti sono sudditi e gli stessi funzionari possono solo esercitare un potere riflesso.
Poiché non può gestire ogni cosa da solo, il faraone si serve di collaboratori, che sceglie quasi sempre nella cerchia dei suoi parenti e delle persone più fidate, cui distribuisce il patrimonio dello Stato e conferisce uno status nobiliare. Il paese è effettivamente governato da un vice del faraone, detto visir, che è coadiuvato da una ristretta schiera di funzionari di primo livello, i quali, a loro volta, affidano il proprio territorio a funzionari di secondo livello, e così via. Il paese è suddiviso in una quarantina di distretti, chiamati “nomi”, ciascuno dei quali è amministrato da un funzionario del faraone. Alla fine ne risulta “una forma di feudalesimo” (CIMMINO 1994: 157-8).
Grazie a questo imponente apparato burocratico, il faraone è in grado di conoscere tutte le risorse naturali e umane del regno e provvedere alla sua amministrazione. Ogni risorsa economica del paese (bestiame, campi, imbarcazioni, alberi), ogni impresa produttiva (manifatture, cave di pietra, miniere, botteghe), la forza lavoro (contadini, artigiani, artisti, mercanti), tutto è scrupolosamente registrato e a tutti, con poche eccezioni, lo Stato chiede un’imposta oltre ad un contributo di lavoro personale. Su tutto vigila il visir. Faraone, visir, sacerdoti, scribi e funzionari costituiscono il vertice della piramide sociale, ossia una ristretta elite aristocratica, che controlla pressoché tutte le risorse del paese e che è ben distinta dal resto della popolazione. Ecco un chiaro esempio di società duale.
Gli egizi disprezzano i pastori, che considerano nomadi selvaggi. La loro principale risorsa economica è l’agricoltura: si coltivano, in prevalenza, orzo, frumento, legumi, alberi da frutta, vite, lino e cotone. Molto praticato è anche l’allevamento di diversi animali, come il bue, l’asino (il cavallo dopo gli Hyksos), il maiale, il montone, la capra, oche e anatre (i polli sono sconosciuti). La quantità del raccolto dipende dall’inondazione del Nilo: “un’inondazione insufficiente significava carestia, un’inondazione troppo abbondante significava l’impossibilità di seminare per tempo” (CIMMINO 1994: 197). Allo scopo di controllare il corso delle acque, gli uomini realizzano un sistema complesso di dighe, chiuse, canali e bacini. Il lavoro dei contadini è ingente e frustrante. Essi, infatti, lavorano tutto il giorno, ma poi, dovendo consegnare una parte del raccolto al faraone, resta loro solo di che sfamarsi e vivono poco al di sopra del limite della pura sussistenza. Leggermente migliore è la condizione degli artigiani (orefici, ebanisti, tessitori, tintori), i quali, lavorando al diretto servizio del faraone e dei suoi funzionari, possono marginalmente beneficiare dei loro privilegi.
Il commercio nasce dalla necessità di procurarsi oggetti e materie prime, come il legname, di cui il paese è carente, che vengono scambiati con altra merce. Anche per questo si avverte la necessità di costruire strade. Viaggiare è comunque rischioso e di solito ci si muove solo in caso di stretta necessità e in gruppi organizzati. La moneta rimarrà sconosciuta fino a quando non verrà introdotta da Alessandro Magno e dai suoi successori.
Per la maggior parte della sua lunga storia, l’Egitto vive in pace, accontentandosi di difendere i propri confini da infiltrazioni indesiderate. Se si eccettuano i pochi faraoni che si impegnano in politiche espansionistiche, per il resto la guerra costituisce raramente una necessità primaria per l’Egitto e, per conseguenza, relativamente scarso è il prestigio di cui godono i guerrieri. Quando la situazione lo richiede, il faraone non deve far altro che ordinare ai governatori delle sue province di arruolare e addestrare un certo numero di guerrieri, anche se col tempo diverrà più frequente il ricorso a truppe mercenarie. Accade che un generale mercenario riesca ad usurpare il potere, ma, in genere, egli deve giustificare il suo comportamento per mezzo di un matrimonio con una principessa della dinastia precedente o riconducendolo alla volontà divina. L’arruolamento è un obbligo che viene imposto con la forza, ma non mancano coloro che lo fanno volontariamente, attratti dal desiderio di sottrarsi ad un’esistenza grama e alla speranza di conquistare un ricco bottino. Col tempo si tenderà a ricorrere a truppe mercenarie e sarà data la possibilità a chi se lo potrà permettere di farsi sostituire da un altro in cambio di denaro. Inizialmente l’esercito è composto solo dalla fanteria, ma, intorno al 3700 BP, gli Hyksos, una popolazione mista formata da gruppi di avventurieri di diversa provenienza, introducono l’uso del cavallo in azioni di guerra. Dopo una campagna militare, i soldati vengono congedati e, in caso di vittoria, molti di essi riescono a portare a casa una parte del bottino, mentre agli ufficiali vengono elargite prebende, incarichi remunerativi e, più raramente, anche schiavi.
La schiavitù invero è un fenomeno scarsamente rappresentato, ma esistente. In Egitto è possibile diventare schiavo per insolvenza di debiti, tuttavia lo schiavo, con l’eccezione del prigioniero di guerra, non perde del tutto i diritti civili, come accadrà in Grecia e a Roma, ma gli viene concessa la facoltà di un’esistenza tollerabile. L’Egitto ospita qualche popolazione straniera, che è destinata a svolgere lavori umili, ma pur sempre in condizioni non molto diverse da quelle in cui versano le classi più modeste della stessa popolazione indigena. Tale sarà il caso degli Ebrei. In Egitto a tutti è riconosciuto almeno il diritto ad un’esistenza tollerabile, perfino agli schiavi, e le donne non vengono trattate peggio degli uomini. Alcuni schiavi vengono selezionati in base alle loro qualità personali e destinati a specifiche mansioni: alcuni vengono reclutati come soldati, altri come interpreti e qualcuno può perfino accedere alla carriera amministrativa, come testimonia il racconto biblico di Giuseppe. Ne risulta una società tutto sommato umana, altrimenti non si spiegherebbe il profondo attaccamento del popolo a quel sistema.
Tale è l’essenza dell’Antico Egitto: un grande popolo con una sola volontà; uno Stato monolitico, autarchico, chiuso, pieno di sé, misoneista; un sistema politico nato perfetto, ma, proprio per questo, non ulteriormente perfettibile, statico, immobile, fossilizzato; una sorta di formicaio, dove ognuno è prigioniero del proprio ruolo e dove si ignora il valore della libertà; un mondo improntato dall’alto e dove l’individuo ha scarso valore. Ciò che conta è solo l’ordine sociale e lo spazio prestabilito dove ciascuno è chiamato a muoversi, che sono ritenuti di origine divina. A rigore, nemmeno il faraone può essere considerato un uomo libero. Anch’egli, infatti, costituisce una parte di quel sistema ed è “costretto” a recitare il ruolo assegnatogli. Gli egizi non riescono, o non vogliono, concepire un modello di società alternativa e rimangono legati a quel mondo immobile, che li fa sentire sicuri di vivere nella società migliore possibile e governati da un “uomo-dio”, le cui decisioni sono le migliori possibili. Non ci sorprende, allora, se in Egitto le rivolte popolari sono rare: le masse, che spesso vivono in condizioni di mera sussistenza, non ritengono di essere sfruttate o, comunque, accettano lo stato in cui versano come inevitabile. Da ciò trae origine lo spirito di sottomissione e la docilità di questi miserabili, che subiscono quasi con gioia l’ordine faraonico, che in realtà li opprime.
Un tratto distintivo dell’uomo egizio è la sua tendenza a proiettare la religione in una realtà ultraterrena, in un aldilà, che è ritenuto superiore e maggiormente desiderabile rispetto alla vita terrena. Gli Egizi sono i primi al mondo a credere nell’esistenza di un’anima, o spirito vitale, detta Ka, che abbandona il corpo al momento della morte, ma può ricongiungersi ad esso, a condizione che ne sia mantenuta l’integrità . Dopo che si sono ricongiunti, corpo e anima iniziano il cammino nell’aldilà, dove vengono giudicati nel tribunale di Osiride e, se considerati degni, entrano nel mondo eterno del dio Ra, l’equivalente del paradiso. Per questo gli Egizi imbalsamano i cadaveri e li seppelliscono in una tomba, che deve avere il più possibile le sembianze di una dimora eterna e adeguata al rango del personaggio.
Ora, poiché l’uomo più importante è il faraone, a lui spetta un trattamento speciale, affinché sia sottratto alla terribile e degradante realtà della morte. “Dio mentre vive, il re continua ad esserlo dopo la morte” (AYMARD, AUBOYER, 1955: 22). Da ciò prende corpo la pratica di conservare il corpo del faraone e di erigergli una casa per l’eternità, la cosiddetta “Grande Casa”, il simbolo della sua immortalità. Tale è la piramide. Per costruirla è necessario il lavoro di migliaia di operai e di schiavi, ai quali è negato il diritto ad una onorevole sepoltura: evidentemente il loro Ka è ritenuto privo di valore e si pensa che essi possano già considerarsi sufficientemente onorati per aver servito il faraone-dio. La piramide ha una struttura così solida da poter sfidale il tempo nei millenni a venire. Invece, nessuna traccia sopravvivrà dei palazzi dei faraoni, perché essi sono di modesta fattura: evidentemente, gli egizi danno maggiore importanza alla vita nell’aldilà piuttosto che alla vita terrena.
La fede nell’anima facilita (ed è facilitata) dalla fede negli spiriti, spiriti di ogni tipo, con cui gli uomini devono rapportarsi e confrontarsi. In questo contesto acquista rilevanza il sogno, che viene ritenuto il campo d’azione dello spirito. Durante il sogno, l’uomo vede uno spirito che agisce e parla. Questo spirito può essere la propria anima o l’anima di qualsiasi altro uomo, morto o vivente, o un dio, che entra in rapporto col dormiente allo scopo di comunicargli qualcosa di importante, soprattutto quando a sognare è il faraone. Il compito di interpretare i sogni viene di norma affidato alla classe sacerdotale, ma anche a persone che, per un verso o per l’altro, sembrano speciali. Anche l’esperienza della morte può rafforzare la fede nell’anima, nel senso che l’anima può fornire una spiegazione “scientifica” della morte e, al tempo stesso, costituire un superamento della stessa. Da dovunque provenga, la credenza nell’anima si accompagna ad una serie di altre credenze, che vanno a confluire nella specifica religione egizia, come la fede nell’immortalità. Intorno a 3,5 Kyr fa, l’autore del Libro dei morti scriveva che dopo la morte l’uomo viene giudicato davanti al tribunale di Osiride e punito o premiato a seconda della sua condotta morale.
Per gli egizi, la vita terrena è solo una tappa intermedia, mentre la morte segna l’inizio della vera vita, quella eterna. Ciò spiega perché gran parte delle risorse del paese viene impiegata “per scopi funerari o per il mantenimento del culto dei morti” (CIMMINO 1994: 32). Nel complesso, gli egizi costruiscono “solo case modeste per la loro breve vita terrena, riservando tutti i fasti alla «casa eterna», ove avrebbero trascorso la vita nell’aldilà” (VARDIMAN 1998: 254). Perciò, le case, anche quelle sontuose, sono fatte con materiale deperibile. Ciò non toglie che la dimora riflette la gerarchia sociale, e così la gente comune risiede in casupole o capanne, tutti gli altri in abitazioni di diversa tipologia, in rapporto al proprio rango. Il faraone vive in un palazzo tanto grande da ospitare comodamente la sua numerosa famiglia, i suoi funzionari, le sue guardie e la sua servitù, e tanto lussuosa da rispecchiare il suo status, ma lontano dall’imponenza, dalla sontuosità e dallo sfarzo delle regge mesopotamiche.
Liberi da ogni preoccupazione per la sussistenza e non svolgendo attività manuali, gli alti funzionari possono dedicarsi ad attività di pensiero, ed è soprattutto a loro che dobbiamo quella che viene chiamata civiltà egizia, almeno per quel che concerne una serie di acquisizioni in discipline, come la geometria, l’architettura, l’astronomia, l’astrologia, la medicina e la filosofia, che vanno ad aggiungersi ai numerosi progressi tecnici maturati in diversi campi, come la coltivazione della terra, la mummificazione dei cadaveri e i lavori artigianali e artistici. In tutti questi campi, gli egizi si cimentano principalmente per rispondere ai problemi concreti della vita quotidiana, certo, ma anche per puro astrattismo e semplice curiosità intellettuale.
Nel tempio e nel palazzo, accanto agli scribi che si occupano prevalentemente dell’amministrazione dello Stato, ci sono altre figure di scribi, che possiamo chiamare artisti, il cui compito è quello di creare cose belle per onorare gli dèi, osannare il faraone e decantare il sistema sociale vigente. Essi contribuiscono nel dare risalto alle imprese del faraone, attraverso la realizzazione di stele, lapidi, obelischi, statue, templi, o altro, cu cui l’artista appone i suoi simboli scritturali. Gli scribi producono anche opere di vario genere letterario, ma a nessuno viene in mente “di redigere una cronaca degli avvenimenti seguendo un metodo storiografico” (CIMMINO 1994: 53). La storia interessa gli egizi soltanto a fini dinastici e si riduce “a poco più che liste di nomi, alla somma degli anni di regno di ciascun sovrano e alla annotazione di alcuni fatti essenziali” (CIMMINO 1994: 301).
Il campo in cui gli egizi si esprimono al massimo livello è la religione, che si sviluppa a partire dai culti locali dei clan e delle tribù. La casa del dio, che inizialmente è una semplice capanna di giunchi, con annesso un luogo di raccolta delle offerte, col passare del tempo, si va trasformando in un monumentale tempio costruito in pietra per durare in eterno e che, oltre al magazzino, comprende grandi territori che, concessi in proprietà dal faraone, vengono amministrati dal sacerdote e dati da lavorare a molte famiglie di contadini. Nel tempio possono accedere solo i sacerdoti, i quali, solitamente, si limitano a svolgere atti rituali in modo autonomo, senza preoccuparsi di uniformare le attività di culto con quelle degli altri sacerdoti, né di creare elaborati sistemi dottrinali e dogmatici, né di fondare una chiesa, né di prendersi cura delle anime. L’essenza della loro religione è la celebrazione del rito, la cui funzione è quella di attirare la benevolenza del dio. A fronte di questo impegno modesto, essi possono contare su solide entrate, e perciò il ruolo sacerdotale è molto ambito. Generalmente si diventa prete “per eredità o per acquisto della carica, più raramente per elezione” (CIMMINO 1994: 108).
Per dare una risposta agli interrogativi più angoscianti della loro esistenza, più che alla scienza, gli egizi tendono a ricorrere all’elemento religioso, che essi sviluppano in modo superlativo. La conseguenza è che, se il loro apporto scientifico è sicuramente inferiore a quello dei mesopotamici e se la loro produzione letteraria è, in qualche modo, subordinata e attinente alla religione, le loro concezioni teologiche sono tra le più avanzate. Gli egizi concepiscono, per esempio, che un dio ha creato l’uomo ad immagine di sé e il mondo in funzione dell’uomo, che la malattia è una punizione divina per i peccati dell’uomo, che gli dèi sono inclini alla misericordia e al perdono, e che perciò bisogna pregarli, che la preghiera non serve solo per ottenere la guarigione delle malattie e per aiutare i vivi, ma anche per salvare le anime dei morti (CURTO 1981: 163-4). Coerentemente con questi princìpi, si diffonde l’usanza di scrivere, prima sulle pareti della tomba del faraone e poi su papiri, che vengono introdotti nel sarcofago o infilati fra le bende della mummia, invocazioni e formule magiche, che hanno la funzione di guidare lo spirito del defunto nel suo cammino verso il mondo del dio Ra. Successivamente questi testi saranno raccolti in quello che è noto col nome di Libro dei Morti.
Gli egizi si pongono anche il problema del male e, anche se non approdano ad una conclusione univoca, formulano delle congetture destinate ad avere un futuro, del tipo: 1) il male è conseguenza necessaria della libertà concessa dal dio all’uomo; 2) il male è una realtà esistente per volontà imperscrutabile di un dio e all’uomo altro non resta che piegarsi impotente al destino che lo sovrasta; 3) il male è opera di un dio malvagio, che si contrappone al dio del bene: è la concezione dualista. Queste idee saranno riprese non solo dagli Ebrei, ma anche dai filosofi e pensatori greci, dalle religioni dualiste (zoroastrismo, manicheismo, gnosi) e, in parte, anche dal cristianesimo.
Nel complesso, la civiltà egizia mostra come un coacervo di famiglie e tribù diverse per tradizioni, cultura e interessi, possa essere tenuto unito come se fosse un sol popolo, in condizioni di pace prevalente. Gli egizi hanno potuto organizzarsi nell’assenza di minacce esterne e, sotto questo aspetto, essi costituiscono un caso raro. Una volta fissati i princìpi religiosi su cui fondare questa società e una volta stabilito il ruolo delle singole famiglie, è stato relativamente facile per un faraone svolgere le sue funzioni di governo. Il segreto della stabilità della società egizia risiede nella somma legittimazione del faraone-dio, la cui autorità non è quasi mai messa in discussione. La volontà del faraone è legge e qualunque cosa decida il faraone è bene. La stessa presenza del faraone rende superflua l’elaborazione di un diritto, almeno di un diritto paragonabile a quelli mesopotamici: si conoscono, tuttavia, raccolte di leggi di tono minore. La legittimazione del faraone è tale che egli non ha da temere l’affermazione di rivali: tranne le immancabili eccezioni, un faraone può essere ucciso e usurpato, ma non sfidato pubblicamente da un nemico interno. Governare in queste condizioni è facile e non richiede l’uso di una grande forza. Gli egizi si lasciano governare più con le idee che con le armi: il faraonismo è più un fatto culturale che un’espressione di forza. Il maggior pericolo per il governo del faraone può venire solo dall’esterno, e si tratta di un’evenienza rara.

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