sabato 5 settembre 2009

5. I Babilonesi

A raccogliere l’eredità culturale sumera sono i Babilonesi, la cui storia inizia allorquando (ca. 3900 anni fa) assume il potere la dinastia, che ha in Hammurabi (3792-3750) il sovrano di maggiore spicco. Prima di Hammurabi, Babilonia è una città di secondo livello nello scacchiere mesopotamico e altrettanto secondaria è la sua divinità tutelare, Marduk, ma, dopo che il grande re ha imposto la sua supremazia, anche Marduk viene promosso a signore supremo dell’universo e la sua gloria è celebrata dai letterati del tempo. Insomma, così come Babilonia ascende nel panorama politico, allo stesso modo Marduk fa la sua irresistibile scalata nel panteon mesopotamico. Dopo Hammurabi inizia un lento declino che culminerà con il dominio prima dei Cassiti (3594-3157), i quali finiranno per accettare e fare propria la cultura babilonese, e contribuiranno a diffonderla, e poi degli Elamiti, degli Aramei e infine degli Assiri.
Quando Hammurabi, membro di un clan amorreo, sale al trono di Babilonia, questa città è relativamente debole e deve barcamenarsi fra città più potenti. Per i primi sei anni Hammurabi si impegna a consolidare il suo potere all’interno della città, inizialmente sbarazzandosi di quanti possono insidiarlo, poi ricorrendo ad una saggia politica di alleanze. In un secondo tempo, riesce a sottomettere, una alla volta, le potenze vicine, fino a conquistare un impero. Esaurita la spinta espansiva, volendo dare stabilità al suo impero, Hammurabi, come Shulgi, si preoccupa di emanare delle leggi scritte, che – sostiene, vengono dal dio tutelare e, come tali, devono essere considerate indiscutibili ed eterne. È il Codice mesopotamico più famoso. Esso è giunto fino a noi inciso a caratteri cuneiformi su una stele di basalto, scoperta a Susa nel 1901, di forma pressappoco cilindrica e alta più di due metri, che contiene circa 3.600 righe di testo sormontate dalla figura del re nell’atto di ricevere le volontà del dio. Non si tratta di una raccolta di leggi in senso moderno, ma di una raccolta di 282 sentenze probabilmente emesse dal sovrano durante il suo regno e riguardanti casi reali o immaginari. Siamo ancora lontani da “quella disciplina fondata sul ragionamento che è il diritto” (AYMARD, AUBOYER, 1955: 143).
Perché Hammurabi avverte l’esigenza di scolpire, in modo così indelebile e scenografico, il suo operato di giudice supremo? La risposta va cercata nel fatto che ci troviamo al termine di un lungo periodo di sanguinose guerre, che ha visto contrapposte le più potenti città mesopotamiche e a cui ha posto fine Hammurabi, il grande re che, dopo aver provveduto, come è consuetudine, a dividere i territori conquistati e gli schiavi fra le famiglie che lo hanno appoggiato, adesso vuole costruire la pace. È in quest’ottica che va valutata la decisione di rendere pubblico il Codice, il quale assume il significato di un messaggio, forte e chiaro, che il re rivolge a tutti i sudditi e ai potenziali nemici: “qui comando io”, “la mia volontà è legge”, “la mia legge viene dal dio”, “io sono un re giusto e stare dalla mia parte conviene”. Il sovrano che ha imposto la sua autorità con la forza delle armi, ora si atteggia a paladino della giustizia, come risulta la prologo del Codice: “Anu ed Enlil nominarono me, Hammurabi, principe umile e devoto, perché facessi rispettare il diritto nel paese, togliessi di mezzo il violento ed il cattivo, in modo che il forte non opprimesse il debole”. Questo schema si ripeterà più volte nel corso della storia e diventerà una prassi abituale: dopo che le armi hanno indicato chi deve comandare, costui annuncia che governerà secondo giustizia!
In ultima analisi, dunque, la stele simboleggia la consacrazione e la legittimazione del potere di Hammurabi per volere del dio. Certo, Hammurabi non è mosso dal desiderio di far giungere alle generazioni future informazioni sulla società del suo tempo, eppure è proprio questo l’aspetto più importante del Codice dal punto di vista della storia. Quel poco che sappiamo della cultura di questi antichi Babilonesi, infatti, lo dobbiamo in massima parte a questo prezioso documento.
Lo spaccato sociale che si intravede, attraverso il Codice, è quello di una società stratificata e diseguale, distinta in tre categorie giuridiche di uomini: i “liberi” (amelu), cioè i proprietari di terre, che occupano il gradino più alto della gerarchia sociale; i “subalterni” (muskenu), cioè coloro che non possiedono terre, ma che si guadagnano comunque da vivere per mezzo di attività commerciali o artigianali, anch’essi considerati liberi, seppure a un livello più basso; gli “schiavi”, per debiti o prigionieri di guerra, che sono privi di libertà. La violazione della legge viene punita in modo più severo se ne è autore un amelu piuttosto che un muskenu, in accordo col principio che più elevato è il rango di una persona, maggiore è la sua responsabilità. Non sono segnalate discriminazioni razziali, né religiose: ciascuno è trattato secondo il proprio rango sociale, indipendentemente dalla razza, e ciascuno è lasciato libero di scegliersi il proprio dio.
Dei pochi princìpi di ordine generale, che possono essere desunti da alcune sentenze presenti nel Codice, i principali si riferiscono all’esigenza di assicurare la continuità della famiglia per mezzo di un figlio e di garantire la proprietà, quella proprietà che è stata conquistata con la forza e che ora diventa un diritto di famiglia, tutelato dal re. Per quel che riguarda i princìpi di giustizia espressi nel Codice, essi si ispirano principalmente alla legge del taglione, che ritroveremo in Mosè, ma prevedono anche la riparazione in beni o denaro, con pene che variano a seconda del reato e del rango sociale della persona che ha commesso o ha subìto il reato stesso. Così, per esempio, un uomo libero, che abbia rotto i denti ad un altro uomo libero, perderà i suoi; mentre, se la vittima è un subalterno, egli risarcirà il danno in denaro. Anche se, nel futuro, questa mentalità potrà sembrare in qualche misura discutibile, si tratta, comunque, di una giustizia che un dio in persona ha consegnato nelle mani di un re, da lui prescelto, affinché la applichi, e, pertanto, di una giustizia insindacabile, di cui il re si dichiara paladino supremo e ultimo garante. Peraltro, essendo esposto in forma scritta, si presume che il Codice rappresenti un passo avanti rispetto alla imprevedibile volontà del sovrano, un vero e proprio atto di civiltà.
La caduta di Babilonia, dopo circa tre secoli di storia, ad opera dei Cassiti, conferma quanto già emerso dalla storia dei sumeri, e cioè che le qualità politiche, da sole, non sono sufficienti a conservare nel tempo il potere di una dinastia.

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